Gulkhana

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Quella di tornare a Kabul è stata una decisione difficile: da lontano, l’idea di mettere insieme abbastanza forze per affrontare il viaggio sembra un’impresa titanica, ben al di là di quanto si possa essere in grado di fare. E poi basta un attimo, le porte dell’aereo si aprono e Kabul ti accoglie con quella sua tipica ondata di calore, con quell’aria torrida dall’odore di polvere che per qualche oscura ragione ti fa sentire a casa. Basta un attimo e la città, col suo fascino inspiegabile, ti riassorbe e tu sei di nuovo parte di lei come se non ci fosse mai stata interruzione.

Kabul è sempre la stessa, eppure stavolta è tutto diverso. C’è un senso di fatica che per la prima volta, dopo tanti anni, è drammaticamente tangibile. Ho passato la scorsa settimana ad aggiungere nomi alla lunga lista di quelli che hanno lasciato il paese. Chi può se ne va, sfinito dalla guerra e dalla mancanza di orizzonte. In un paese senza presente come l’Afghanistan, la fuga di cervelli rischia di diventare la condanna a morte per il futuro.

Ieri un mio caro amico, uno dei più promettenti giovani artisti in città, mi ha scritto dicendo che spera di venire a trovarmi presto per mostrarmi i suoi nuovi disegni e nel frattempo mi aggiornava del fatto che non era soddisfatto dei suoi progressi: per vari mesi infatti non ha potuto disegnare perché non aveva più carta. Per fortuna, mi ha scritto, è andato in Pakistan con la famiglia e ha potuto comprare altra carta – e quindi ha ricominciato a disegnare. Non riesco a togliermi dalla testa il tono senza rabbia e senza rivendicazione con cui mi ha scritto: qui è così, è normale non avere la carta e non poter disegnare, c’è poco altro da aggiungere.

E’ da questa mancanza di carta che anche io devo ricominciare.

Il mio nuovo ufficio è nella serra di uno dei più bei palazzi di Kabul, sorprendentemente sopravvissuto a decenni di bombe di varia provenienza. Qui chiamano la serra gulkhana, la casa dei fiori – in questo periodo dell’anno il caldo è insopportabile, ma ho chiesto io di sedermi lì, mi sembrava un bel punto di partenza. La mia scrivania è circondata dalle finestre e inondata dal sole: torrida in questa stagione, ma con la promessa di un tepore gentile durante il lungo inverno. Mi guardo intorno e sono felice della scelta che ho fatto – ha senso essere qui; ha senso essere qui ora. Ha senso, ma mi domando come alimentare la determinazione per andare avanti con un compito che in qualche modo è “ingrato”: lavorare per il futuro senza la garanzia di risultati immediati nel presente. La promessa e la visione di una prospettiva più ampia delle immediate contingenze è senz’altro una fonte di motivazione, ma trovare il senso di quella motivazione nei piccoli passi di ogni giorno è tutt’altra storia – spero di avere sufficiente lucidità per continuare a ricordarlo a me stessa.

Le finestre della gulkhana affacciano sul giardino, mai spoglio perché costruito intorno al ciclo delle stagioni, all’instancabile andare circolare del tempo: saggezza semplice e senza pretese che ha molto da insegnare.

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