Prima e dopo

Qualche settimana fa, una persona che conosco da anni mi ha scritto per dirmi che dagli ultimi bollettini le era sembrato che fossi molto disturbata dalla situazione a Gaza. L’osservazione mi ha colto di sorpresa e la mia immediata reazione è stata di irrigidimento, ovviamente sono molto disturbata – lo sono io e lo sono molte delle persone a me care, come si fa a non essere profondamente disturbati e continuare ad andare avanti come se niente fosse?

Quell’osservazione continua a farmi pensare.

Sono passate 28 settimane dal 7 ottobre e questo periodo marca per me un chiaro prima e dopo. Una frase di un film uscito di recente mi ha molto colpito e mi ronza nella testa: “Cosa ha cambiato in me Gaza? Il mio intero essere.”

C’è un facile rischio di retorica, ma credo che questo sia vero anche per me: più nel senso dello svelamento che in termini di cambiamento. La lotta per l’autodeterminazione della Palestina è stata parte integrante della mia formazione politica ed è un elemento fondamentale del mio stare al mondo da più di trent’anni. In questo senso, quindi, c’è poco da cambiare.

Cosa dunque ha cambiato in me Gaza?

Mi ha messo di fronte a me stessa in modi inaspettati.

Non prendere posizione non è un privilegio a cui ho diritto. Non correre rischi per le mie idee politiche non è un privilegio a cui ho diritto. Non ho il diritto di girare lo sguardo e far finta di non vedere.

Per chi come me scrive per mestiere, c’è il dovere deontologico di parole chiare e precise. Un assassino è un assassino; un genocidio è un genocidio; una strage di innocenti non è un incidente, ma un massacro; un bambino non muore di fame per caso, ma è ucciso da un preciso disegno strategico. 

Il silenzio e il quieto vivere sono forme di complicità che non voglio più avallarle. Non sono scelte che condivido e che rispetto e quindi non voglio far finta che siamo tutti amici come prima.

In un momento di lutto così accecante, c’è però una comunità che si sta ritrovando. Una comunità di maglie strette e maglie larghe, di gente lontana e vicina, conosciuta e sconosciuta che vive chiaramente un prima e un dopo, che si riconosce in questo cambiamento irrevocabile e si sostiene a vicenda alla luce di questa cesura.

Una delle immagini più terribili che ho visto in queste 28 settimane e che non mi abbandonerà mai più è quella di un seme di dattero che ha germogliato fra le dita di una persona sepolta sotto le macerie. Un orrore e un miracolo allo stesso tempo. Una metafora devastante che non ha bisogno di spiegazioni. Uno spiraglio e forse un auspicio sulla forza indomabile della resistenza e della solidarietà.

La resa dei conti

È più di un mese che cerco le parole.

Il monito di Audre Lorde sulla tirannia del silenzio ha continuato a risuonarmi nelle orecchie mentre facevo i conti per tutti questi giorni con l’incapacità di articolare la rabbia e lo sconforto, con lo smarrimento e l’incredulità rispetto al punto di non ritorno che l’umanità ha raggiunto in questo mese.

Niente potrà mai essere come prima. Spero che l’orrore di queste settimane ci rimanga addosso come l’onta di vergogna di un marchio a fuoco e ci impedisca di dimenticare e ci costringa a decidere chi vogliamo essere, da che parte vogliamo stare, cosa vogliamo insegnare ai nostri figli, come troviamo il coraggio di guardarci allo specchio la mattina.

Niente potrà mai essere come prima. Certe immagini – il loro significato, il loro dolore, le loro conseguenze – non dovranno mai più cancellarsi né dalla memoria individuale né da quella ancestrale che l’umanità tramanda per generazioni.

Un papà raccoglie nelle buste di plastica della spazzatura i resti dei figli uccisi dalle bombe. I bambini prematuri muoiono perché hanno distrutto le infrastrutture degli ospedali e le incubatrici non hanno più di cosa essere alimentate. Le urla dei sopravvissuti sotto le macerie. La puzza delle fosse comuni.

Cosa significa per una madre scrivere il nome sul corpo di un figlio perché così può essere un morto identificabile o un superstite rintracciabile e non un anonimo computo in una statistica? Dove trova quella mano la forza per scrivere quel nome?

Scrivo e mi sale la nausea.

Siamo a un punto di non ritorno. Siamo alla resa dei conti con noi stessi e con chi ci sta intorno. Chi non prende posizione è complice. Non ci sono silenziosi osservatori innocenti.

Stringiamoci a chi trova il coraggio di resistere. Ritroviamoci. Sosteniamoci come comunità. Mettiamoci in ascolto del disagio, della paura, dell’angoscia di chi ci sta vicino. In questo momento di non ritorno, è chiaro chi resta nella nostra vita e chi no – o si sta da una parte o dall’altra. L’indifferenza è una scelta ed è una scelta criminale.

La solidarietà ha un prezzo, costa fatica e corre rischi. Celebriamo il coraggio di chi sceglie di correre questi rischi – non perdiamo l’occasione di una parola di sostegno, in mezzo a tanto orrore la gentilezza può ancora aiutare a costruire piccoli ponti e può far sì che ci sentiamo meno soli e meno abbandonati al declino dell’umanità. 

Leggevo da qualche parte che la resistenza è la più grande forma d’amore. Allora resistiamo insieme, come scelta suprema di riscatto. Sosteniamoci a vicenda nella rivendicazione del diritto all’autodeterminazione.

L’obiettivo non è il cessate il fuoco. L’obiettivo è la fine dell’occupazione, degli abusi, di monopolio della condizione di vittime in nome del quale Israele sta commettendo atrocità abominevoli.

L’obiettivo è che con la liberazione della Palestina arriviamo collettivamente alla liberazione del senso di umanità che per ora è sepolto sotto le macerie degli ospedali di Gaza.

Li chiamano rimpatri

A Kabul la neve paralizza l’aeroporto; alcuni dicono sia colpa del ghiaccio, altri pensano che ci sia un problema con i radar che non distinguono i fiocchi di neve dagli altri oggetti volanti. Per tornare, ho fatto scalo ad Istanbul dove l’aereo è arrivato in ritardo dall’Italia là per là non me ne sono preoccupata convinta che il volo per Kabul non sarebbe partito per via della neve e invece atterro e vedo sul display la scritta rossa lampeggiante “Ultima Chiamata.”

Salgo sull’aereo di corsa convinta di essere l’ultima. L’aereo è pieno, per lo più giovani uomini afghani, fra venti e trent’anni, con l’aria sperduta. C’è odore di sudore e panni non lavati. Siamo fermi sulla pista da una buona mezzora quando il capitano ci dice – solo in turco e in inglese – che per il maltempo e per questioni indipendenti dalla sua volontà il volo è posticipato ed ha un ritardo indefinito. Poi ci invita a sbarcare non prima, però, dell’arrivo della polizia. Con voce priva di emozione aggiunge che prima di poter scendere, dobbiamo aspettare che le forze dell’ordine completino le formalità di sbarco per i “deportati.” I giovani uomini afghani sono dunque quelli arrivati come clandestini e che adesso la maggior parte dei paesi europei sta rispendendo in Afghanistan.

Deportati.

L’onestà della definizione mi ha colpito come un pugno allo stomaco – forse non necessariamente con fini politici, ma questa semplice frase del comandate mi ha dato la misura dell’orrore di cui sono stata testimone impotente.

Nei corridoi stretti dell’aereo, passano in fila indiana, vicini vicini, uno dietro l’altro, con gli occhi grandi di paura. Fuori c’è una notte gelida e la maggior parte di loro ha giacche leggere e maglioncini sottili; nevica a vento, alcuni portano i sandali. Hanno tutti una grande busta di plastica trasparente: mutande, calzini, un asciugamano rosa; tutto in vista, nessuna considerazione per un senso di decoro privato. Guardo e sto zitta, incapace di radunare abbastanza coraggio per denunciare la follia di quanto mi sta succedendo sotto gli occhi.

Poco prima di Natale, un’amica di amici mi aveva chiesto di dare una mano ad un ragazzo rispedito a Kabul dopo vent’anni passati in giro per il mondo come rifugiato. Ho fatto appena in tempo a sentirlo per telefono: era terrorizzato, in Afghanistan non conosceva nessuno e stava per attraversare il confine per passare ancora volta in Iran dove c’era già parte della sua famiglia prima di rimettersi in viaggio. Un mese fa ho letto di un ragazzo appena rimpatriato – si, le deportazioni forzate vengono chiamate rimpatri per non offendere coloro che hanno lo stomaco sensibile – che è rimasto vittima di uno dei sanguinosi attacchi a Kabul: era arrivato in Afghanistan il giorno prima.

Questi ragazzi sono quelli di cui parlano con la schiuma alla bocca gli xenofobi di mezzo mondo, sono quelli che minacciano la nostra sicurezza e i nostri diritti acquisiti, sono quelli che minano la nostra civiltà.

Bisognerebbe avere la possibilità di guardare queste persone in faccia anche solo per un secondo per capire che l’unica cosa che è a rischio in questo momento è la nostra umanità. Sono la prima a dichiararmi colpevole di indifferenza giustificata dall’ignoranza. Avevo letto delle deportazioni, alcuni miei colleghi mi avevano detto che anche il loro volo per Kabul era pieno di giovani uomini scortati dalla polizia. Sapevo e ho ignorato, mi è servito vedere con i miei occhi per rendermi conto dell’enormità di cui siamo complici e adesso scrivo per placare i sensi di colpa e con la speranza che le parole possano aiutare altri a vedere quello che è più comodo ignorare.

La paura ci sta rendendo ciechi. Guardiamo dall’altra parte per evitare di prendere posizione, io non ho avuto la forza di alzarmi e gridare la mia indignazione. Mi sono sentita morire dentro e non sono stata capace di dirlo ad alta voce. L’ignavia facilita il fascismo, mai come adesso il silenzio ci rende complici. Ma da soli non ci si riesce – o almeno io non ci riesco – a superare le barriere insormontabili del qualunquismo. Le scelte di solidarietà e di umanità sono necessariamente collettive, condivise, parlate ad alta voce, sofferte e sentite con cuore molteplice. Forse è per questo che scrivo oggi. Per non sentirmi sola. Per sapere che non sono sola.

Le cose che non so

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Ieri il cugino di uno dei nostri insegnanti è stato ucciso in un assassinio mirato. Una di quelle storie che si leggono sui giornali, lontane milioni di anni luce, che pensi non faranno mai parte della tua vita perché appartengono ad un altrove sconosciuto. Una di quelle storie fuori dall’ordinario che non hanno niente a che fare con la normalità del quotidiano.

Sono qui che gestisco una scuola. La mia immaginazione di quella che sarebbe stata la mia routine prima che cominciassi a lavorare includeva la revisione dei metodi d’insegnamento, il conseguimento dell’eccellenza artistica, pagelle e note disciplinari. Quello che in realtà ora fa parte della mia ordinaria amministrazione è la gestione di situazioni al di fuori della norma, aliene, emotivamente destabilizzanti, che in un paese in guerra, invece, rappresentano tristemente la quotidianità.

L’impermanenza e la transitorietà sono difficili da elaborare come ingredienti inevitabili del nostro vissuto di ogni giorno; sono difficili da digerire in quanto forza radicante nel presente e non come vento di tempesta che cancella il senso della direzione.

Il concetto di resilienza è abusato e tirato in ballo troppo spesso e con troppa leggerezza. Ma momenti come questo, che mettono a nudo tutte le cose che non so, rivelano anche la misteriosa forza che abbiamo dentro e di cui spesso non siamo a conoscenza. Una forza immensa e silenziosa che ci aiuta a tenere insieme i pezzi, a continuare a guardare avanti; che protegge la volontà, come diceva Vittorio Arrigoni, di restare umani.

Fare Speranza

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All’Istituto stiamo attraversando un periodo di trasformazione. Prima di poter cominciare a costruire bisogna fare pulizia e fare i conti con la frustrazione che nasce dalla banalità dei compiti quotidiani, senza perdere di vista la prospettiva di lungo periodo. La risposta al cambiamento è spesso la paura e la diffidenza nei confronti di chi, per volere o per forza, propone alternative.

Parlavo ieri col mio collega, la vera colonna portante dell’Istituto, di questa fase complicata, di quello che stiamo facendo, di quello che ci aspetta e del fatto che dobbiamo rimanere concentrati sulla visione che stiamo cercando di realizzare. E’ un uomo serio, il mio collega; una persona di poche parole. Le discussioni con lui si concentrano sull’essenziale, senza pettegolezzi, senza fronzoli e senza alcun margine di autocompiacimento.

Il problema di questo paese – mi ha detto – è che nessuno guarda al futuro, la gente non ha neanche la sicurezza che esista un futuro. Quindi siamo tutti attaccati al presente, a cercare di ricavarne il massimo, per noi stessi, per il nostro interesse personale, senza alzare gli occhi e guardare al bene comune.

Io ho ribattuto che questo rappresenta un ostacolo non da poco per chi cerca di costruire un percorso educativo che lavora sul presente in funzione del futuro.

E’ questione di cattive abitudini – ha continuato. Ci si accontenta di quello che si ha adesso, ci si arrocca su quel poco di privilegi accumulati e ci si chiude nei confronti di chi li mette in questione.

E quindi noi qui che ci stiamo a fare? Gli ho chiesto un po’ scoraggiata.

E lui impassibile, prima di rimettersi a lavorare, mi ha risposto: Siamo qui a fare speranza.

E’ da ieri che non smetto di pensarci. Queste due parole – fare speranza – mi hanno completamente cambiato il modo di guardare alle cose. Ho sempre pensato alla speranza come ad una dimensione dell’anima e del cuore; un sentimento bello, una fonte di ottimismo, che corre il rischio di trasformarsi in un atteggiamento passivo di attesa per il meglio che verrà. Il peso della responsabilità del fare speranza a tratti mi toglie il respiro, ma così, almeno, so di essere nel mio: che ci si riesca o no, è un’altra storia, ma almeno ci si può provare – almeno c’è di che sporcarsi le mani.

L’esercizio della responsabilità

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Storicamente, i periodi di crisi socio-politiche sono caratterizzati da grandi movimenti popolari di protesta e rivendicazione dei diritti. L’enfasi sulla dimensione di rivendicazione da una parte implica la presupposizione di un potere che ascolta, dall’altra sposta la necessità dell’azione al di là di chi protesta.
E’ forse anche per questo che un documento tanto importante quanto la Carta Universale dei Doveri e delle Responsabilità è praticamente sconosciuta. A seguito di un processo consultivo internazionale che ha coinvolto esperti, politici (fra cui Leoluca Orlando), intellettuali (inclusi Dario Fo e Gianni Vattimo) e rappresentanti di comunità, la Carta è stata redatta a Valencia nel 1998 in occasione del 50º anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani sotto il patrocinio dell’UNESCO. La Carta è una versione speculare della Dichiarazione dei Diritti Umani e funziona quasi da contrappunto: a tutto ciò di cui abbiamo diritto, fa da contraltare quello che dobbiamo fare per renderlo possibile.
Premessa fondamentale del documento è la distinzione di piani fra doveri e responsabilità. I primi hanno un valore di impegno morale, che si traduce in vincolo legale attraverso l’assunzione di responsabilità: se non espletiamo a pieno i nostri doveri per garantire i diritti di tutti, siamo perseguibili penalmente.
In tempi come questi, per esempio, è importante ricordare che al sacrosanto diritto al libero movimento fa eco il dovere all’ospitalità – in particolare verso chi è dislocato a causa di guerre o carestie – nell’ottica di un’equità non solo formale, ma sostanziale.
L’articolo 38 della Carta si concentra su doveri e responsabilità tanto degli individui che delle comunità di creare le condizioni e sostenere le arti e la produzione culturale.
Lavoro da oltre dieci anni nella promozione culturale, rivitalizzazione del patrimonio immateriale e sostegno agli artisti in paesi in conflitto. Fra le ragioni che muovono il mio agire c’è la consapevolezza di una profonda interconnessione tra urgenza, diritto e dovere alla libera espressione. Alla luce della Carta, la mia attività professionale è la risposta a una chiamata all’assunzione di responsabilità per cui ciò che facciamo è parte di una tutela dei diritti tanto individuali che collettivi.

Mondana Bashid

Un concerto a Manchester; una gelateria a Baghdad; un sabato sera di divertimento nel cuore di Londra; un crocevia trafficato, una manifestazione, un funerale a Kabul. Morti e feriti a decine se non a centinaia. E tutto questo senza contare quel che ci sfugge del resto dell’Iraq, della Siria, della Nigeria e di tutti i paesi che a stento fanno notizia.

Sono giorni difficili di fatica e paura. La chiusura e il sospetto sembrano la soluzione migliore: sicuramente quella più semplice. Alzare i muri e chiudere le porte. Girare le spalle a tutto ciò che è altro da noi. Ma si tratta della scelta peggiore: vuol dire cadere nella trappola, giocare alle regole del terrore, cedere al ricatto.

Manchester, Baghdad, Kabul e Londra rispondono a gran voce al rischio di scivolare nella bigotteria.

Stamattina nella metropolitana di Londra un cartello diceva: “Tutti possono cedere, è la cosa più facile che il mondo possa fare. Ma la vera forza sta nel tenere i pezzi insieme quando nessuno si stupirebbe del collasso.” E la gelateria di Baghdad ha riaperto cinque giorni dopo essere stata attaccata. E Kabul, con le code per donare il sangue e gli appelli all’unità e i dottori che hanno lavorato senza sosta e i giornalisti che non hanno mai smesso di essere in prima linea, continua a ricordarci il valore senza prezzo dell’umanità.

In Afghanistan, dove una cultura cortese dà ancora valore al rito di scambiarsi i saluti, ho imparato uno degli auspici più belli: Mondana Bashid – che tu possa non essere mai stanco.

Non penso ci sia niente di meglio da augurarci a vicenda in un momento del genere quando la stanchezza, la paura, lo sfinimento, il senso di impotenza rischiano di prendere il sopravvento.

Mondana Bashid ai cittadini di Kabul, ai medici di emergency, ai miei amici afghani che credono nel futuro.a tutti e ciascuno di noi; a tutti quelli che, ovunque si trovino nel mondo, hanno ancora il coraggio di continuare a sperare e lavorano per rendere le cose un po’ migliori.

Chi pulisce la città

Ho scritto un tributo a coloro che puliscono la città dopo gli attentati, in occasione della bomba del 23 luglio 2016 a Kabul. La loro presenza silenziosa ci dà la possibilità di guardare avanti con dignità.

Dopo l’attentato terribile di ieri in cui i morti confermati sono 93 e i feriti piu’ di 450, il mio pensiero torna di nuovo a loro.

l giorno dopo, si sa, è sempre difficile.

Quella di ieri è stata, per Kabul, la strage peggiore dal 2001 – tutti civili, tutti giovani, un colpo al cuore già fragile della città. Con la sobrietà che caratterizza un giorno di lutto nazionale, la città stamattina si è svegliata e ha ricominciato a vivere dopo un pomeriggio passato col fiato sospeso. Kabul è una città forte, una città che reagisce e non si lascia piegare. La sua resilienza formidabile è una delle prime cose che si scoprono quando si viene a vivere qui. La vita va avanti, nonostante tutto e tutti: ci si rimbocca le maniche e si guarda avanti – un modo di vedere il mondo che è una profonda fonte d’ispirazione.

Stamattina mi sono svegliata con un pensiero fisso che non riesco a togliermi dalla testa: continuo a pensare a chi pulisce la città, a quelli che in silenzio entrano in azione prima dell’alba e ripuliscono la città dalle tracce di un orrore come quello di ieri. Si dice che la forza di Kabul sta nel fatto che riesce sempre a ricominciare, ma non si dice mai niente di quelli che lo rendono possibile, di quelli che strofinano il sangue via dall’asfalto, di quelli che raccolgono i resti e con le pompe lavano via tutto quello che deve scomparire. E’ a loro che probabilmente si deve il fatto che si possa andare avanti, a questi silenziosi restauratori della normalità che, a Kabul come a Baghdad o a Srinagar, hanno il compito di mascherare gli odori, restaurare il sipario dell’ordinario, nascondere le tracce di traumi difficili da immaginare.

Non ho idea di chi siano o che faccia abbiano, non ho idea di che cosa possa passare loro per la testa, se una preghiera o una bestemmia, mentre strofinano avvolti dalla notte. Ho pensato che fosse importante scrivere di loro – per esorcizzare un pensiero ossessivo e per rendere omaggio a chi, forse senza saperlo, ci rende possibile guardare al futuro.

Questo testo è stato pubblicato su Q Code Mag

Resistere è esistere

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50 anni fa, La Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo vinceva il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia. In occasione dell’anniversario, il film è stato restaurato e CG Entertainment ha lanciato una campagna per pubblicare questa nuova edizione. In sostegno all’iniziativa, mi hanno chiesto di raccogliere dei pensieri in risposta a questa grande opera d’arte.
Il testo
è qui di seguito e questo è il link per sostenere la campagna.

Viviamo tempi cupi, in equilibrio precario fra la paura e l’assuefazione. La grande macchina dell’impero sbuffa in affanno, colpita al cuore da lupi solitari e terroristi organizzati. Il guado tra noi e loro si allarga, un guado definito da scorciatoie spesso solcate da conoscenze superficiali che sembrano convincenti perché elaborate nella lingua incontestabile del populismo rassicurante. Viviamo tempi cupi che sono alimentati da interminabili corsi e ricorsi di vichiana memoria: la storia non insegna, il genere umano non impara dagli errori del passato, la sete di vendetta sazia più del desiderio di trasformazione. La distopia del presente costruisce geografie frammentarie e isolazioniste, disegnate al negativo e fondate sulla divisione. In questo quadro sconfortante invece della possibilità d’incontro, l’unica cosa che sembra moltiplicarsi sono i dispositivi di separazione e i meccanismi di esclusione: muri di cemento, droni dai mille occhi, bobine di filo spinato.

Cinquantadue anni fa, Gillo Pontecorvo girava La Battaglia di Algeri, un film rivoluzionario senza tempo che – raccontando la storia della resistenza algerina e dei primi passi del movimento di liberazione nazionale che hanno condotto al drammatico, ma necessario processo di decolonizzazione – parla al presente con una contemporaneità stupefacente.

Cambiano i termini storici, ma la sostanza resta la stessa. Gli oppressori, i fascismi, i colonialismi passati e presenti reiterano triti argomenti per perpetuare la propria esistenza e asserire un’idea immutabile di passato che confermi la legittimità del proprio privilegio. Il paternalismo benevolente del potere, l’infantilizzazione dell’altro, la discriminazione sulla base del colore della pelle e della religione sopravvivono alla loro stessa stupidità.

In risposta ad uno status quo ingiusto e apparentemente immutabile, la resistenza – politica, civile, disobbediente, armata – continua a vivere rivendicando il diritto all’autodeterminazione, ad un accesso equo alle risorse, alla possibilità di essere gli autori della propria storia.

L’Algeria del 1957 è la Palestina dell’Intifada, è il Kashmir dell’estate di sangue del 2016, è la protesta degli Indiani d’America nella Riserva di Standing Rock.

Qualche tempo fa, in una conversazione i cui toni sono presto diventati animati, un amico mi ha invitato al realismo dicendo che di fronte alla violenza del potere è dovere dell’oppresso accettare la disparità delle forze ed accettare un compromesso. Mi ha detto che devo imparare a distinguere fra l’idealismo e la realpolitik: è tempo di crescere e guardare in faccia la realtà, visto che il sacrificio per la libertà non hai mai portato nessun frutto.

E’ vero, mai come oggi – in giorni di barconi alla deriva, campi profughi delimitati da reti elettrificate e diritto al movimento negato sulla base della religione – è tempo di crescere e guardare in faccia la realtà prendendo atto del fatto che siamo costantemente stimolati a scommettere sulla sopravvivenza e di dimenticarci della nostra esistenza.

Resistere è esistere – vivere a pieno in nome dell’equità e della libertà proponendo un modello diverso dall’oscurantismo che in nome di un dubbio beneficio immediato dissecca le radici dei diritti, del valore della diversità, della necessità di esprimere il proprio sé al di là di categorizzazioni e incasellamenti.

In La Battaglia di Algeri nel sesto giorno dello sciopero generale organizzato dal Fronte di Liberazione Nazionale, il gendarme francese al megafono sollecita la popolazione locale ricordando loro che è la Francia ad essere la loro patria ed è la Francia a sapere ciò che è meglio per il loro futuro e non i “terroristi” che cercano di manipolarli.

In un momento di grande poesia, il piccolo Omar, sgattaiolando tra il filo spinato, riesce a sottrarre il megafono ai Francesi e grida alla folla: “Fratelli algerini, fratelli, coraggio, resistete. Resistete. Non ascoltate quello che vi dicono. L’Algeria sarà libera.”

E’ con l’innocenza di questo bambino, un’innocenza che sopravvive nonostante la guerra, che dobbiamo guardare al futuro, alle potenzialità di un domani non omologato, tenendo stretto il diritto sacrosanto a esistere e resistere.

Una brava persona

Le ultime sono state settimane difficili di grande fatica emotiva e momenti di buio in cui mi sono trovata faccia a faccia con il rischio tangibile di diventare la persona che non voglio essere, insofferente, distaccata e preceduta da una nuvola nera di malumore.

Per quanto possa suonare trito, a volte è proprio vero che bisogna confrontarsi con l’oscurità per rendersi conto della luce.

Il risultato di tanta fatica è che questi giorni infatti mi hanno fatto capire che forse l’obiettivo principale della mia vita è quello di essere una brava persona. Può forse sembrare ingenuo, ma penso che in un momento storico come quello che stiamo vivendo questo possa davvero tradursi in una scelta politica radicale.

Non lasciarsi sopraffare dalla paura e dal sospetto, mantenere un atteggiamento curioso, aperto e disponibile. Credo che una scelta del genere in questo momento possa rappresentare l’unica radice possibile per riformare il sociale, per contribuire in modo costruttivo ad un modo diverso di pensare alla collettività. Questa forse è l’unica via possibile per emanciparci dai modelli e dai consumi che ci incanalano verso un’uniformità grigia e senza volto.

Penso alla scelta di semplicità che hanno fatto i miei genitori, penso al lavoro di inclusione e rispetto che fa mia sorella. L’investimento sull’integrità della persona e della pratica è l’unica strada possibile per non soccombere a questi tempi spaventosi, per non cedere alla volgarità delle urla, degli sputi e della violenza. Ne parlavo ieri sera con Sandi Hilal in una delle nostre preziose conversazioni transoceaniche: la grande sfida per il futuro è quella di coltivare il coraggio di mantenere aperte le porte di casa, di investire sull’ospitalità e lo scambio. Il passo difficile è quello di renderci conto che questa scelta personale diventa responsabilità civica, che la scelta di come viviamo il nostro oggi ha immense ripercussioni politiche.

L’ambizione più grande è dunque quella di essere una brava persona – ritrovando anche il coraggio di non preoccuparsi di essere fuori moda.

(Dedicato a Sandi Hilal)