Spectacles

It has been a few days since one of my students at the Institute is having a hard time reading and writing and his school results have gone down. We asked a few questions and we discovered that he broke his spectacles and his family does not have money to buy new ones (about 30$ between frames and lenses).

Another one is always tired; his eyes are red, and he struggles to focus. I called him to my office and asked him what was going on. He said that there is no problem, and everything is normal. For him normal means living in a tiny room behind the woodworking workshop of his cousin. After school he works there to earn a bit of money and then in the evening he goes for tuition. His family is in Kuduz, probably the most dangerous part of the country right now. I asked him to come and stay at the students’ dorm, but he declined the offer: I think he fears that if he moves out of his cousin workshop he’ll lose the opportunity to earn a little.

There is a boy who is emotionally unstable, his parents tell him he’s good for nothing and he only finds peace of mind when he draws. He told us: “People say I am crazy.” At the Institute, he’s just a boy like anyone else: he’s found his little world and a bit of tranquillity.

Another student is distracted and absent-minded, we catch him often staring at the void. His brother – to whom he resembles immensely – has been killed in a bomb-blast last year, it has recently been the first anniversary. How can we help him restore an emotional balance?

I have been back in Kabul only for three days and these are the stories that welcomed me. Yet again, a unique opportunity to put my priorities in order and remember not to take anything for granted.

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Occhiali

È un po’ di giorni che uno dei miei studenti all’Istituto fa fatica a leggere e scrivere e i suoi risultati scolastici sono peggiorati. Abbiamo fatto un po’ di domande e abbiamo scoperto che gli si sono rotti gli occhiali e la famiglia non ha i soldi per ricomperarglieli (30 euro fra lenti e montatura).

Un altro è sempre stanco e ha gli occhi rossi, fa fatica a concentrarsi. L’ho chiamato nel mio ufficio e gli ho chiesto che stava succedendo. Mi ha detto che non c’è nessun problema ed è tutto normale. La sua normalità consiste nel vivere in una stanzetta dietro al laboratorio di falegnameria del cugino, quando esce da scuola lavora un po’ lì per tirare su qualche soldo e poi la sera va a ripetizioni. La sua famiglia è a Kunduz, una delle zone più pericolose del paese. Gli ho chiesto di venire a stare al dormitorio, preferisce di no; credo che non voglia perdere quei soldini che riesce a guadagnare vivendo nel laboratorio.

Un ragazzo ha problemi di stabilità emotiva, i genitori gli dicono che è un buono a niente, il suo unico momento di pace è quando disegna. Ci ha detto: “Dicono tutti che sono pazzo.” All’Istituto è un ragazzo come gli altri, ha trovato il suo mondo e un po’ di tranquillità.

Un altro studente è assente e distratto, a volte lo si sorprende a guardare nel vuoto. Suo fratello – a cui lui assomiglia in maniera incredibile – è stato ucciso in un attentato un anno fa, e c’è appena stato il primo anniversario. Come si fa ad aiutarlo a ricostruire un equilibrio emotivo?

Sono tornata a Kabul solo da tre giorni e sono queste le storie che mi hanno accolto. Ancora una volta, un’occasione unica per rimettere in ordine le priorità e ricordarmi di non dare niente per scontato.

Li chiamano rimpatri

A Kabul la neve paralizza l’aeroporto; alcuni dicono sia colpa del ghiaccio, altri pensano che ci sia un problema con i radar che non distinguono i fiocchi di neve dagli altri oggetti volanti. Per tornare, ho fatto scalo ad Istanbul dove l’aereo è arrivato in ritardo dall’Italia là per là non me ne sono preoccupata convinta che il volo per Kabul non sarebbe partito per via della neve e invece atterro e vedo sul display la scritta rossa lampeggiante “Ultima Chiamata.”

Salgo sull’aereo di corsa convinta di essere l’ultima. L’aereo è pieno, per lo più giovani uomini afghani, fra venti e trent’anni, con l’aria sperduta. C’è odore di sudore e panni non lavati. Siamo fermi sulla pista da una buona mezzora quando il capitano ci dice – solo in turco e in inglese – che per il maltempo e per questioni indipendenti dalla sua volontà il volo è posticipato ed ha un ritardo indefinito. Poi ci invita a sbarcare non prima, però, dell’arrivo della polizia. Con voce priva di emozione aggiunge che prima di poter scendere, dobbiamo aspettare che le forze dell’ordine completino le formalità di sbarco per i “deportati.” I giovani uomini afghani sono dunque quelli arrivati come clandestini e che adesso la maggior parte dei paesi europei sta rispendendo in Afghanistan.

Deportati.

L’onestà della definizione mi ha colpito come un pugno allo stomaco – forse non necessariamente con fini politici, ma questa semplice frase del comandate mi ha dato la misura dell’orrore di cui sono stata testimone impotente.

Nei corridoi stretti dell’aereo, passano in fila indiana, vicini vicini, uno dietro l’altro, con gli occhi grandi di paura. Fuori c’è una notte gelida e la maggior parte di loro ha giacche leggere e maglioncini sottili; nevica a vento, alcuni portano i sandali. Hanno tutti una grande busta di plastica trasparente: mutande, calzini, un asciugamano rosa; tutto in vista, nessuna considerazione per un senso di decoro privato. Guardo e sto zitta, incapace di radunare abbastanza coraggio per denunciare la follia di quanto mi sta succedendo sotto gli occhi.

Poco prima di Natale, un’amica di amici mi aveva chiesto di dare una mano ad un ragazzo rispedito a Kabul dopo vent’anni passati in giro per il mondo come rifugiato. Ho fatto appena in tempo a sentirlo per telefono: era terrorizzato, in Afghanistan non conosceva nessuno e stava per attraversare il confine per passare ancora volta in Iran dove c’era già parte della sua famiglia prima di rimettersi in viaggio. Un mese fa ho letto di un ragazzo appena rimpatriato – si, le deportazioni forzate vengono chiamate rimpatri per non offendere coloro che hanno lo stomaco sensibile – che è rimasto vittima di uno dei sanguinosi attacchi a Kabul: era arrivato in Afghanistan il giorno prima.

Questi ragazzi sono quelli di cui parlano con la schiuma alla bocca gli xenofobi di mezzo mondo, sono quelli che minacciano la nostra sicurezza e i nostri diritti acquisiti, sono quelli che minano la nostra civiltà.

Bisognerebbe avere la possibilità di guardare queste persone in faccia anche solo per un secondo per capire che l’unica cosa che è a rischio in questo momento è la nostra umanità. Sono la prima a dichiararmi colpevole di indifferenza giustificata dall’ignoranza. Avevo letto delle deportazioni, alcuni miei colleghi mi avevano detto che anche il loro volo per Kabul era pieno di giovani uomini scortati dalla polizia. Sapevo e ho ignorato, mi è servito vedere con i miei occhi per rendermi conto dell’enormità di cui siamo complici e adesso scrivo per placare i sensi di colpa e con la speranza che le parole possano aiutare altri a vedere quello che è più comodo ignorare.

La paura ci sta rendendo ciechi. Guardiamo dall’altra parte per evitare di prendere posizione, io non ho avuto la forza di alzarmi e gridare la mia indignazione. Mi sono sentita morire dentro e non sono stata capace di dirlo ad alta voce. L’ignavia facilita il fascismo, mai come adesso il silenzio ci rende complici. Ma da soli non ci si riesce – o almeno io non ci riesco – a superare le barriere insormontabili del qualunquismo. Le scelte di solidarietà e di umanità sono necessariamente collettive, condivise, parlate ad alta voce, sofferte e sentite con cuore molteplice. Forse è per questo che scrivo oggi. Per non sentirmi sola. Per sapere che non sono sola.

The things that I don’t know

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Yesterday the cousin of one of our teachers has been killed in a targeted assassination. It felt like one of those stories that you read on the newspaper and you think they will never be part of your life because they belong to a foreign elsewhere. One of those stories that are beyond the ordinary and have nothing to do with the normality of the everyday.

I am here to run a school. Before I started, my idea of what my routine would look like included the revision of teaching methods, the achievement of artistic excellence, grades and disciplinary notes. What turned out to be a part of my ordinary administration is also the management of situations that are extraordinary, alien and emotionally destabilising – which, however, in a country at war are sadly integral to daily life.

Impermanence and transience are difficult to conceive as some of the inevitable ingredients of our life; they are difficult to digest as a force that roots you in the present rather than as a windstorm that erases any sense of direction.

The concept of resilience is often abused and quoted far too frequently and light-hardheartedly. But it is moments like this, when all the things that I don’t know lay bare, that reveal the mysterious strength that we have inside and we’re often not aware of. It is an immense force that helps keeping things together; that helps continuing to look ahead; a silent strength that protects the desire – as Vittorio Arrigoni used to say – to stay human.

Le cose che non so

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Ieri il cugino di uno dei nostri insegnanti è stato ucciso in un assassinio mirato. Una di quelle storie che si leggono sui giornali, lontane milioni di anni luce, che pensi non faranno mai parte della tua vita perché appartengono ad un altrove sconosciuto. Una di quelle storie fuori dall’ordinario che non hanno niente a che fare con la normalità del quotidiano.

Sono qui che gestisco una scuola. La mia immaginazione di quella che sarebbe stata la mia routine prima che cominciassi a lavorare includeva la revisione dei metodi d’insegnamento, il conseguimento dell’eccellenza artistica, pagelle e note disciplinari. Quello che in realtà ora fa parte della mia ordinaria amministrazione è la gestione di situazioni al di fuori della norma, aliene, emotivamente destabilizzanti, che in un paese in guerra, invece, rappresentano tristemente la quotidianità.

L’impermanenza e la transitorietà sono difficili da elaborare come ingredienti inevitabili del nostro vissuto di ogni giorno; sono difficili da digerire in quanto forza radicante nel presente e non come vento di tempesta che cancella il senso della direzione.

Il concetto di resilienza è abusato e tirato in ballo troppo spesso e con troppa leggerezza. Ma momenti come questo, che mettono a nudo tutte le cose che non so, rivelano anche la misteriosa forza che abbiamo dentro e di cui spesso non siamo a conoscenza. Una forza immensa e silenziosa che ci aiuta a tenere insieme i pezzi, a continuare a guardare avanti; che protegge la volontà, come diceva Vittorio Arrigoni, di restare umani.

A Kabul la resistenza si fa arte

trainingcraftsmenUn viaggio nella capitale afgana tra teatri occupati, tele in cemento e spazi restaurati. A cui registi, poeti e altri artisti, decisi a combattere contro ingiustizie e pregiudizi, ridanno vita.

Grazie Giuliano Battiston per questo bell’articolo che parla anche del nostro lavoro e dell’Istituto Afgano di Arte e Architettura.

Qui il link all’articolo.

A new adventure

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I have said many times, far too many times, that it was time for me to look for new geographies, to leave Kabul and go somewhere else. Instead here I am, writing again from Kabul where I moved back full time, the reason being a request that was impossible to say no to.

I have been asked to work as Acting Director of the Afghan Institute of Arts and Architecture in Turquoise Mountain.

The Institute is a little corner of paradise in the heart of the old city of Kabul, a modern structure built in mud and wood according to traditional techniques.

The school was founded ten years ago to respond to the risk that traditional crafts would disappear because of war, migrations and carelessness. At the onset of the Taliban regime, in fact, many traditional masters left the country for fear or lack of opportunities thus interrupting the cycle of knowledge transmission and creating a void that was difficult to fill. Those who had stayed back in Afghanistan were struggling to survive – Ustad Hadi, for example, who once was a woodcarver at the king’s court had ended up selling bananas in a wheelbarrow on the street to feed his family.

The initial mandate of the Institute was to gather the threads of a story that risked to be forgotten; today we have one hundred students who are learning the arts of calligraphy and miniature painting, jewellery and gem cutting, woodwork and pottery with the blue glazing coming from a local plant. They are girls and boys, between fifteen and twenty years of age, who are learning a craft and a trade, while contributing to the active conservation of Afghanistan’s cultural heritage.

Working in a school like this, preserving the stories from the past while looking at the future, is a serious challenge and a great responsibility. It is also a unique opportunity to think about the role of traditional knowledge – slowly sedimented across generations – in relation to the fast pace of contemporary society; to think about how to keep it relevant and sustainable without anachronisms or the romanticisation of an ideal past.

Una nuova avventura

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Ho detto tante volte, fin troppe, che era ora di cercare nuove geografie, lasciare Kabul e andare altrove. Invece eccomi qua a scrivere ancora da Kabul, dove sono tornata a vivere a tempo pieno. La ragione è un’opportunità a cui è stato impossibile dire di no.

Mi hanno chiesto di fare il direttore dell’Istituto Afgano di Arte e Architettura presso Turquoise Mountain.

L’istituto è un piccolo angolo di paradiso nella città vecchia di Kabul, una struttura moderna, ma costruita con legno e fango secondo le tecniche tradizionali. La scuola è nata dieci anni fa, per rispondere al rischio che le forme di artigianato tradizionali scomparissero per colpa della guerra, delle migrazioni e dell’incuria.

All’arrivo dei Talebani molti dei mastri tradizionali avevano lasciato il paese per paura o per mancanza di lavoro, interrompendo così il ciclo del trapasso delle nozioni e creando un vuoto difficile da colmare. I pochi maestri rimasti nel paese vivevano di stenti – Ustad Hadi, per esempio, che per anni era stato l’intagliatore del re era finito a vendere banane in una carriola per strada per poter sfamare la famiglia.

Il mandato iniziale dell’istituto era quello di raccogliere le fila di una storia che rischiava di essere dimenticata; oggi abbiamo cento studenti che imparano l’arte della miniatura e della calligrafia, la gioielleria e il taglio delle pietre dure, l’intaglio e l’intarsio del legno e la ceramica con l’invetriatura blu derivata da una pianta locale. Sono ragazze e ragazzi dai quindici ai vent’anni che, mentre imparano un mestiere, contribuiscono alla conservazione attiva del patrimonio culturale dell’Afghanistan.

Essere alla guida di una scuola del genere, preservando le storie del passato, ma mantenendo un occhio al futuro è una sfida seria e una responsabilità importante. E’ anche un’occasione unica per pensare al ruolo dei saperi tradizionali, sedimentati lentamente nel corso delle generazioni, in relazione al passo affrettato del mondo contemporaneo; per capire come mantenerli rilevanti e sostenibili senza anacronismi o fantasie romantiche su un passato ideale.

La sinagoga di Kabul

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Ci sono luoghi che sembrano fatti della sostanza della leggenda: se ne conosce l’esistenza, si sa che sono lì da qualche parte, ma la loro dimensione fisica rimane astratta e misteriosa.

La sinagoga di Kabul è stata in tutti questi anni quasi un luogo dell’immaginazione – fino a qualche giorno fa.

Avevo letto diversi articoli sull’“ultimo ebreo di Kabul”; sul suo brutto carattere, sulla sua passione per il whisky e sulla contesa con un altro ebreo – poi morto nel frattempo – per rivendicare il primato di essere l’ultimo. Tante storie di colore, ma niente di specifico su questo luogo così raro.

Qualche giorno fa, senza troppo pianificare e in modo quasi casuale, siamo riusciti a visitare la  sinagoga insieme a tre colleghi. Proprio come da copione, il signor Simintov – l’ultimo ebreo – ha risposto al nostro desiderio di andare con la richiesta di una bottiglia di Johnny Walker Etichetta Nera. Essendone ovviamente sprovvisti alle tre di un sabato pomeriggio qualsiasi, abbiamo provato a negoziare, solo per sentirci dire che non si fa credito a nessuno. Dispiaciuti per la mancata opportunità, siamo andati via, ma evidentemente la solitudine ha avuto il sopravvento e il signor Simintov ci ha richiamato dicendo che poteva incontrarci comunque e che invece della bottiglia, per questa volta, avrebbe potuto accettare dei soldi.

Di lui si è scritto molto, o forse troppo, della sinagoga troppo poco.

Dall’esterno i segni riconoscibili di un luogo di culto sono quasi inesistenti: solo l’occhio che già sa riconosce le stelle di David che traforano la finestra la primo piano e decorano il portone sgangherato di metallo turchese. A prima vista il portone sembra socchiuso, in realtà è solo imbarcato e incastrato per il poco uso. Perplessi ci guardiamo intorno e il venditore di sigarette ci indica la porta secondaria: per entrare si passa da un ristorante decorato di arancione che vende kebab e patatine. Attraversata la cucina e varcata la soglia, ai neon abbaglianti si sostituisce la penombra e l’odore stantio di fritto. La balaustra turchese è un intreccio di stelle in ferro battuto. Sono scale poco calpestate, lo strato di polvere è spesso e omogeneo.

Ci fermiamo per un po’ a parlare con il signor Simintov che adesso vive nella stanza che era in passato utilizzata dalle donne per pregare. E’ dipinta di verde acido, la moquette è rosso bordeaux e la stufa a gas perde, l’odore pungente mi fa starnutire. Simintov ci dice che la sinagoga è stata costruita nel 1966 con le donazioni della comunità ebraica di Herat, ci dice che a Kabul ai bei vecchi tempi c’erano centocinquanta famiglie di ebrei. Ci dice che non sono stati i talebani a farli andar via, ma le migrazioni verso Israele e che lo stato d’Israele “se ne fotte” (testualmente) e non ha nessun interesse a restaurare la sinagoga danneggiata da anni di conflitto. La comunità in sé non è mai stata un bersaglio, la guerra non guarda in faccia nessuno.

Finalmente visitiamo la sinagoga. Fuori dalla porta c’è una tazza del gabinetto coperta di polvere e molte finestre hanno i vetri rotti. Entriamo e, attraversando la stanza, lasciamo impronte nella polvere. La sinagoga non ha una copia della Torah, ma in un armadio a muro ci sono vecchie carte e documenti mangiati dal tempo. Le lampade sul muro sono attaccate su dei piccoli cartelli che portano i nomi dei defunti.

E’ un luogo silenzioso, desolato, in abbandono. E’ il cimitero della memoria, è un memento mori, un monumento al tempo che passa.

Per chi, come me, lavora alla conservazione del patrimonio, luoghi come questi parlano direttamente al cuore: sono un’accusa e un invito, una richiesta di fermarsi a pensare. Non si può lottare contro il tempo, non si può salvare ogni luogo, ogni pietra, ogni monumento. Si deve imparare a scegliere, a lasciar andare, ad accettare che l’abbandono ha anche lui un messaggio da comunicare. E poi si può e si deve continuare a raccontare storie perché questi meravigliosi cimiteri della memoria possano continuare a sopravvivere.

The synagogue of Kabul

IMG-1266There are places that seem to be made of the stuff of legend: you know that they exist, that they are there somewhere, but their physical dimension remains abstract and mysterious.

The synagogue of Kabul is one of those places: over these past years it has been a place that almost only existed in an imaginary space– until recently.

I had read a number of articles about “the last remaining Jew of Kabul”; about his bad temper, his passion for whiskey and about the dispute with another Jew – who died in the meanwhile – to claim the right to be called the last Jew. Many colourful stories, but nothing specific about the synagogue itself.

A few days ago, without too much planning and almost by chance, we manage to visit the synagogue with three of my colleagues. As if following a script, Mr Simantov – the last Jew – answers to our desire to go for a visit with the request of a bottle of Johnny Walker Black Label. We don’t obviously have any bottle with us on a random Saturday afternoon so we try to negotiate only to hear in return that he does not do things on credit for anyone. We go away a bit disappointed for the missed opportunity. Loneliness, however, must have won Mr Simantov over as he calls us back within a few minutes and says that instead of a bottle, for this one time, he could make do with some cash.

While a lot, or maybe too much, has been written about him, too little has been written about the synagogue.

From the outside the signs of a place of worship are almost non existent; only the eye that already knows where to look will find the stars of David carved out in the windows or decorating the battered turquoise metal gate. At first sight, the door seems to be ajar; it is instead curved up and a bit stuck for being so rarely used. As we look around a bit perplexed, the local cigarette sellers directs us to the back door: you need to go through a bright orange restaurant selling chips and kebabs to reach it. Once you go through the kitchen and cross the building’s threshold the brightness of the neon tubes is replaced by dim light and the stale smell of old fried oil. The turquoise stair railing is an intricate embroidery of iron stars. Hardly anyone climbs up the stairs, the layer of dust is thick and homogeneous.

We spend some time talking to Mr Simantov, who now lives in what used to be the women’s prayer room. It is painted bright green and has a maroon moquette; the gas stove leaks slightly, it makes me cough. Simantov tells us that the synagogue was built in 1966 with the donations from the Jewish community in Herat; he says that in the good old times there used to be hundred and fifty Jewish families living in Kabul. He says it is not because of the Taliban that they left, but because they migrated to Israel and the state of Israel doesn’t give a piss (verbatim) to restore the synagogue that has been damaged by years of conflict. The community itself has never been a target, war has no preference.

We finally get to see the synagogue. Just outside the door there is an old toilet covered in dust and the glass of many windows is broken. We enter and, as we cross the room, our steps leave footprints in the dust. The synagogue doesn’t have a copy of the Torah, but in a cupboard there are old papers and documents eaten up by time and moths. The lamps on the walls are fixed on small plaques that carry the names of the dead.

It is a silent, desolate place. It is abandoned. It is memory’s cemetery, a memento mori, a monument to time.

For those who, like me, work for the preservation of heritage, places like these speak directly to the heart: they are both an accusation and an invite, a request to stop and think. You can’t fight against time, you can’t save every place, every stone, every monument. You need to learn to chose, to let go, to accept that abandon itself has a message to communicate. But then we can, and possibly should, keep telling stories so that these wonderful memory’s cemeteries can continue to survive.