Occhiali

È un po’ di giorni che uno dei miei studenti all’Istituto fa fatica a leggere e scrivere e i suoi risultati scolastici sono peggiorati. Abbiamo fatto un po’ di domande e abbiamo scoperto che gli si sono rotti gli occhiali e la famiglia non ha i soldi per ricomperarglieli (30 euro fra lenti e montatura).

Un altro è sempre stanco e ha gli occhi rossi, fa fatica a concentrarsi. L’ho chiamato nel mio ufficio e gli ho chiesto che stava succedendo. Mi ha detto che non c’è nessun problema ed è tutto normale. La sua normalità consiste nel vivere in una stanzetta dietro al laboratorio di falegnameria del cugino, quando esce da scuola lavora un po’ lì per tirare su qualche soldo e poi la sera va a ripetizioni. La sua famiglia è a Kunduz, una delle zone più pericolose del paese. Gli ho chiesto di venire a stare al dormitorio, preferisce di no; credo che non voglia perdere quei soldini che riesce a guadagnare vivendo nel laboratorio.

Un ragazzo ha problemi di stabilità emotiva, i genitori gli dicono che è un buono a niente, il suo unico momento di pace è quando disegna. Ci ha detto: “Dicono tutti che sono pazzo.” All’Istituto è un ragazzo come gli altri, ha trovato il suo mondo e un po’ di tranquillità.

Un altro studente è assente e distratto, a volte lo si sorprende a guardare nel vuoto. Suo fratello – a cui lui assomiglia in maniera incredibile – è stato ucciso in un attentato un anno fa, e c’è appena stato il primo anniversario. Come si fa ad aiutarlo a ricostruire un equilibrio emotivo?

Sono tornata a Kabul solo da tre giorni e sono queste le storie che mi hanno accolto. Ancora una volta, un’occasione unica per rimettere in ordine le priorità e ricordarmi di non dare niente per scontato.

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Fare Speranza

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All’Istituto stiamo attraversando un periodo di trasformazione. Prima di poter cominciare a costruire bisogna fare pulizia e fare i conti con la frustrazione che nasce dalla banalità dei compiti quotidiani, senza perdere di vista la prospettiva di lungo periodo. La risposta al cambiamento è spesso la paura e la diffidenza nei confronti di chi, per volere o per forza, propone alternative.

Parlavo ieri col mio collega, la vera colonna portante dell’Istituto, di questa fase complicata, di quello che stiamo facendo, di quello che ci aspetta e del fatto che dobbiamo rimanere concentrati sulla visione che stiamo cercando di realizzare. E’ un uomo serio, il mio collega; una persona di poche parole. Le discussioni con lui si concentrano sull’essenziale, senza pettegolezzi, senza fronzoli e senza alcun margine di autocompiacimento.

Il problema di questo paese – mi ha detto – è che nessuno guarda al futuro, la gente non ha neanche la sicurezza che esista un futuro. Quindi siamo tutti attaccati al presente, a cercare di ricavarne il massimo, per noi stessi, per il nostro interesse personale, senza alzare gli occhi e guardare al bene comune.

Io ho ribattuto che questo rappresenta un ostacolo non da poco per chi cerca di costruire un percorso educativo che lavora sul presente in funzione del futuro.

E’ questione di cattive abitudini – ha continuato. Ci si accontenta di quello che si ha adesso, ci si arrocca su quel poco di privilegi accumulati e ci si chiude nei confronti di chi li mette in questione.

E quindi noi qui che ci stiamo a fare? Gli ho chiesto un po’ scoraggiata.

E lui impassibile, prima di rimettersi a lavorare, mi ha risposto: Siamo qui a fare speranza.

E’ da ieri che non smetto di pensarci. Queste due parole – fare speranza – mi hanno completamente cambiato il modo di guardare alle cose. Ho sempre pensato alla speranza come ad una dimensione dell’anima e del cuore; un sentimento bello, una fonte di ottimismo, che corre il rischio di trasformarsi in un atteggiamento passivo di attesa per il meglio che verrà. Il peso della responsabilità del fare speranza a tratti mi toglie il respiro, ma così, almeno, so di essere nel mio: che ci si riesca o no, è un’altra storia, ma almeno ci si può provare – almeno c’è di che sporcarsi le mani.

A Kabul la resistenza si fa arte

trainingcraftsmenUn viaggio nella capitale afgana tra teatri occupati, tele in cemento e spazi restaurati. A cui registi, poeti e altri artisti, decisi a combattere contro ingiustizie e pregiudizi, ridanno vita.

Grazie Giuliano Battiston per questo bell’articolo che parla anche del nostro lavoro e dell’Istituto Afgano di Arte e Architettura.

Qui il link all’articolo.

Una nuova avventura

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Ho detto tante volte, fin troppe, che era ora di cercare nuove geografie, lasciare Kabul e andare altrove. Invece eccomi qua a scrivere ancora da Kabul, dove sono tornata a vivere a tempo pieno. La ragione è un’opportunità a cui è stato impossibile dire di no.

Mi hanno chiesto di fare il direttore dell’Istituto Afgano di Arte e Architettura presso Turquoise Mountain.

L’istituto è un piccolo angolo di paradiso nella città vecchia di Kabul, una struttura moderna, ma costruita con legno e fango secondo le tecniche tradizionali. La scuola è nata dieci anni fa, per rispondere al rischio che le forme di artigianato tradizionali scomparissero per colpa della guerra, delle migrazioni e dell’incuria.

All’arrivo dei Talebani molti dei mastri tradizionali avevano lasciato il paese per paura o per mancanza di lavoro, interrompendo così il ciclo del trapasso delle nozioni e creando un vuoto difficile da colmare. I pochi maestri rimasti nel paese vivevano di stenti – Ustad Hadi, per esempio, che per anni era stato l’intagliatore del re era finito a vendere banane in una carriola per strada per poter sfamare la famiglia.

Il mandato iniziale dell’istituto era quello di raccogliere le fila di una storia che rischiava di essere dimenticata; oggi abbiamo cento studenti che imparano l’arte della miniatura e della calligrafia, la gioielleria e il taglio delle pietre dure, l’intaglio e l’intarsio del legno e la ceramica con l’invetriatura blu derivata da una pianta locale. Sono ragazze e ragazzi dai quindici ai vent’anni che, mentre imparano un mestiere, contribuiscono alla conservazione attiva del patrimonio culturale dell’Afghanistan.

Essere alla guida di una scuola del genere, preservando le storie del passato, ma mantenendo un occhio al futuro è una sfida seria e una responsabilità importante. E’ anche un’occasione unica per pensare al ruolo dei saperi tradizionali, sedimentati lentamente nel corso delle generazioni, in relazione al passo affrettato del mondo contemporaneo; per capire come mantenerli rilevanti e sostenibili senza anacronismi o fantasie romantiche su un passato ideale.

La sinagoga di Kabul

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Ci sono luoghi che sembrano fatti della sostanza della leggenda: se ne conosce l’esistenza, si sa che sono lì da qualche parte, ma la loro dimensione fisica rimane astratta e misteriosa.

La sinagoga di Kabul è stata in tutti questi anni quasi un luogo dell’immaginazione – fino a qualche giorno fa.

Avevo letto diversi articoli sull’“ultimo ebreo di Kabul”; sul suo brutto carattere, sulla sua passione per il whisky e sulla contesa con un altro ebreo – poi morto nel frattempo – per rivendicare il primato di essere l’ultimo. Tante storie di colore, ma niente di specifico su questo luogo così raro.

Qualche giorno fa, senza troppo pianificare e in modo quasi casuale, siamo riusciti a visitare la  sinagoga insieme a tre colleghi. Proprio come da copione, il signor Simintov – l’ultimo ebreo – ha risposto al nostro desiderio di andare con la richiesta di una bottiglia di Johnny Walker Etichetta Nera. Essendone ovviamente sprovvisti alle tre di un sabato pomeriggio qualsiasi, abbiamo provato a negoziare, solo per sentirci dire che non si fa credito a nessuno. Dispiaciuti per la mancata opportunità, siamo andati via, ma evidentemente la solitudine ha avuto il sopravvento e il signor Simintov ci ha richiamato dicendo che poteva incontrarci comunque e che invece della bottiglia, per questa volta, avrebbe potuto accettare dei soldi.

Di lui si è scritto molto, o forse troppo, della sinagoga troppo poco.

Dall’esterno i segni riconoscibili di un luogo di culto sono quasi inesistenti: solo l’occhio che già sa riconosce le stelle di David che traforano la finestra la primo piano e decorano il portone sgangherato di metallo turchese. A prima vista il portone sembra socchiuso, in realtà è solo imbarcato e incastrato per il poco uso. Perplessi ci guardiamo intorno e il venditore di sigarette ci indica la porta secondaria: per entrare si passa da un ristorante decorato di arancione che vende kebab e patatine. Attraversata la cucina e varcata la soglia, ai neon abbaglianti si sostituisce la penombra e l’odore stantio di fritto. La balaustra turchese è un intreccio di stelle in ferro battuto. Sono scale poco calpestate, lo strato di polvere è spesso e omogeneo.

Ci fermiamo per un po’ a parlare con il signor Simintov che adesso vive nella stanza che era in passato utilizzata dalle donne per pregare. E’ dipinta di verde acido, la moquette è rosso bordeaux e la stufa a gas perde, l’odore pungente mi fa starnutire. Simintov ci dice che la sinagoga è stata costruita nel 1966 con le donazioni della comunità ebraica di Herat, ci dice che a Kabul ai bei vecchi tempi c’erano centocinquanta famiglie di ebrei. Ci dice che non sono stati i talebani a farli andar via, ma le migrazioni verso Israele e che lo stato d’Israele “se ne fotte” (testualmente) e non ha nessun interesse a restaurare la sinagoga danneggiata da anni di conflitto. La comunità in sé non è mai stata un bersaglio, la guerra non guarda in faccia nessuno.

Finalmente visitiamo la sinagoga. Fuori dalla porta c’è una tazza del gabinetto coperta di polvere e molte finestre hanno i vetri rotti. Entriamo e, attraversando la stanza, lasciamo impronte nella polvere. La sinagoga non ha una copia della Torah, ma in un armadio a muro ci sono vecchie carte e documenti mangiati dal tempo. Le lampade sul muro sono attaccate su dei piccoli cartelli che portano i nomi dei defunti.

E’ un luogo silenzioso, desolato, in abbandono. E’ il cimitero della memoria, è un memento mori, un monumento al tempo che passa.

Per chi, come me, lavora alla conservazione del patrimonio, luoghi come questi parlano direttamente al cuore: sono un’accusa e un invito, una richiesta di fermarsi a pensare. Non si può lottare contro il tempo, non si può salvare ogni luogo, ogni pietra, ogni monumento. Si deve imparare a scegliere, a lasciar andare, ad accettare che l’abbandono ha anche lui un messaggio da comunicare. E poi si può e si deve continuare a raccontare storie perché questi meravigliosi cimiteri della memoria possano continuare a sopravvivere.

Cercare la bellezza a Kabul

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Afghanistan National Museum Motto

Sono stata intervistata da Valeria Minaldi per Kabul Magazine sulla produzione culturale in Afghanistan e le modalità del mio lavoro a Kabul tra difficoltà pratiche, pregiudizi, assenza di agevolazioni, voglia di cambiamento e trasformazione sociale.

Qui il link all’intervista.

 

Domande importanti

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Un po’ di tempo fa, un’amica di mia mamma mi ha chiesto se una sua allieva potesse mandarmi delle domande sul lavoro che faccio per la sua ricerca per l’esame di terza media. Ho detto di si senza troppo pensare. Dopo qualche settimana mi sono arrivate le domande di Sara e mi sono resa conto che alle mie risposte era legata una grande responsabilità. Mi sono trovata davanti al compito difficile di bilanciare onestà e semplicità, tenendo a freno il cinismo e articolando delle risposte che valorizzassero il tono attento e sensibile delle domande di Sara. Da speranza sapere che nella confusione generale di questo tempo cieco, una ragazza di tredici anni abbia voglia di conoscere quel che succede in altri angoli del mondo. La nostra “intervista” è stata per me un’occasione importante di riflessione che mi fa piacere condividere.

Sara: Qual è la situazione attuale relativamente alla vita quotidiana dei civili?

Francesca: Nell’ultimo anno, in Afghanistan le cose sono molto peggiorate. Nonostante questa sia una guerra quasi dimenticata, il peso che il conflitto ha sui civili è enorme. L’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa specificamente dell’Afghanistan, l’UNAMA, ha pubblicato un nuovo rapporto la scorsa settimana in cui rivela che il 2016 è stato uno degli anni peggiori per i civili dall’inizio della guerra quindici anni fa. Per le continue violenze più di 650 mila persone solo lo scorso anno sono state costrette a lasciare le proprie case e spostarsi in città o villaggi vicini o in campi profughi per cercare un posto più sicuro dove vivere. Immagina, quindici città grandi come Avezzano costrette a spopolarsi: sono numeri enormi e difficili da immaginare.

Questo inverno, poi, le cose sono state particolarmente complicate perché c’è stata tanta neve e molte valanghe e alcune zone del paese sono quasi impossibili da raggiungere per via della guerra, rendendo la situazione dei civili – soprattutto dei più poveri – ancora più pesante.

Sara: Ci sono ancora attacchi terroristici? Come i civili possono difendersi?

Francesca: L’unico modo in cui ci si può difendere dalla guerra è continuare a vivere la propria vita e non farsi sopraffare dalla paura. Andare avanti e continuare a sperare in un domani migliore, non credo ci sia altra difesa possibile.

Sara: Riuscite a comunicare facilmente con le persone del posto, e a rilevare le loro difficoltà/esigenze?

Francesca: Io mi occupo di arte e produzione culturale. Il mio lavoro – a Kabul come in ogni altra parte del mondo – è, se la vogliamo dire così, dedicato alle esigenze della mente e dello spirito, più che a quelle del corpo. Ho dedicato gli scorsi cinque anni a questo tipo di “cura”. Sono anni in cui ho imparato molto e continuo ogni giorno ad imparare qualcosa di nuovo. La cosa importante per, usando le tue parole, comunicare e rilevare le esigenze delle persone è quella di essere disposti all’ascolto, di essere aperti a capire la realtà di un posto tanto diverso dal nostro senza la presunzione di arrivare in partenza già con tutte le risposte e le soluzioni a tutti i problemi. Un atteggiamento del genere penso che non porti da nessuna parte e non faccia bene né a noi né a chi ci sta intorno.

Sara: Sul territorio quante /quali associazioni/organizzazioni operano e per quali scopi?

Francesca: L’Afghanistan è pieno di organizzazioni locali e internazionali che si occupano delle cose più disparate, dall’educazione, alla difesa dell’ambiente, alla costruzione delle strade e alle vaccinazioni. Alcune organizzazioni fanno un gran buon lavoro, serio e importante; altre approfittano un po’ del bisogno e del fatto che la comunità internazionale continua a mandare tanti soldi nel paese. C’è un po’ di tutto. Se ti devo nominare un esempio di eccellenza, su tutti c’è la nostra emergency: costruiscono ospedali per le vittime di guerra, lavorano con coraggio, dedizione e umiltà; la loro è una storia da cui c’è davvero molto da imparare.

Sara: Qual è il livello di sicurezza di voi volontari?

Francesca: E’ importante chiarire che chi lavora in Afghanistan non è un volontario, ma un professionista pagato (a volte molto) per fare il proprio lavoro in un contesto difficile.

La sicurezza degli stranieri è una cosa complessa e costosissima fatta di macchine blindate, guardie e quelli che si chiamano protocolli di sicurezza ossia dei modi di comportamento da tenere in situazioni di rischio. Ci sono molte sfumature e questa è una domanda molto complicata che apre delle riflessioni molto complesse sul come ci si comporta e il perché di certe scelte.

Sara: Esiste secondo voi una possibilità di migliorare la situazione politica?

Francesca: La possibilità del miglioramento è una cosa di cui non si deve mai dubitare, altrimenti si rischia di perdere la speranza per il futuro. Capire quale sia il percorso necessario per il miglioramento, con i suoi tempi e modi, è la grande sfida e una responsabilità condivisa fra la società civile e il governo. Per chi sta lontano, credo che la cosa importante sia non dimenticare le guerre perché ad un certo punto non fanno più notizia.

Sara: Quali siti posso consultare per avere uno spaccato reale della situazione politica e sociale?

Francesca: Non conosco molte risorse utili in italiano. C’è il sito di emergency http://www.emergency.it/index.html; ci sono gli scritti di Giuliano Battiston che viaggia spesso in Afghanistan http://talibanistan.blogautore.espresso.repubblica.it/ e ci sono alcuni articoli interessanti su Q Code Magazine http://www.qcodemag.it/

L’arte è bipede

Riccardo Benassi, Novembre 2006 © Paolo Sante Cisi

Riccardo Benassi, Novembre 2006 © Paolo Sante Cisi

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Una conversazione fra Riccardo Benassi e Francesca Recchia avvenuta il 9 luglio del 2012 al Café Gorky Park di Berlino / anche intesa come un’intervista pre-Techno Casa.

C’è un inevitabile, imbarazzante fondo di verità nel senso comune. Una guida inconscia all’interpretazione del mondo: una chiave, una lente d’ingrandimento, un invito alla sovversione. Il lavoro di Riccardo Benassi sembra prendere forma in questo spazio indefinito e indefinibile, giocando sulla linea sottile che trasforma la familiarità in straniamento.

In questa conversazione, dieci idiomi, dieci modi di dire, dieci inconfutabili banalità ci guidano alla scoperta dell’inaspettato.

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0. Tra il dire e il fare…

Ovvero: la scultura e la scrittura

Questa fase del tuo lavoro sembra segnare un passaggio marcato dalla progettazione di spazi alla preponderanza della parola scritta, che comunque ha sempre avuto un ruolo importante. Le parole e le cose occupano due sfere semantiche ed epistemologiche diverse e la distinzione fra le due spesso si inserisce nella gerarchia non scritta fra pensiero ed azione. Quali sono le tue coordinate in questa transizione?

Lawrence Wiener ha recentemente affermato che i giovani artisti dovrebbero raccontare di meno e fare di più, ed è interessante se ci pensi che questo consiglio arrivi proprio da un padre concettuale che ha fatto del linguaggio la materia prima del suo lavoro. Se è vero che l’utilizzo del linguaggio non presuppone la narrazione, allora l’unico motivo per cui ha davvero senso raccontare è forse quello di far succedere quello che si racconta. Mi piace pensare che organizzare tridimensionalmente uno spazio architettonico vuoto equivalga in qualche modo ad organizzare bidimensionalmente lo spazio di una pagina bianca. Per questo motivo molti dei miei ultimi lavori, dopo essere stati ambienti, suoni, fotografie o sculture, diventano poi dei libri, o qualcosa di simile a libri. Partendo da questo presupposto, viene semplice immaginare un tipo di scrittura che mira ad esaltare la fenomenicità degli eventi, o ad un tipo di ambiente che diventa narrazione. Creare un’opera è il tentativo di dare forma ad una sensazione che ho provato – o sto provando – al fine di permettere ad altri di darle senso. Infatti credo che anche quando un’opera fa appello ad un mondo o ad una popolazione che ancora non esiste, lo fa partendo dalle sensazioni che – in vita – l’artista ha provato. L’utilizzo del linguaggio è quindi questa sorta di ponte levatoio tra me e i nuovi incontri. Di solito il ponte levatoio serve ad attraversare un fossato, è una sfumatura tra uno spazio indoor e uno outdoor, ma in questo caso sappiamo che predispone le derive, serve ad attraversare il mare che sta tra il dire e il fare. Si potrebbe dire che io e l’architettura, così come io e il linguaggio, ci aiutiamo a vicenda. Parte della mia ricerca si concentra sul rapporto vigente tra contenuto e contenitore, sull’occupazione temporanea – attraverso il suono – del vuoto che l’architettura lascia alle sue spalle. Studiare questo rapporto significa in qualche modo ricalibrare il mio valore in qualità di artista all’interno della società. Mi sembra inoltre che oggi il linguaggio sia quotidianamente sottoposto ad attacchi semantici atti a coadiuvare diverse tipologie di utilizzi strumentali che impongono la dissoluzione dei significati soggettivi – e l’idea di narrazione che sto sviluppando oppone un certo tipo di resistenza a questa degenerazione.

1. Prendere due piccioni con una fava

Ovvero: la scrittura che diventa scultura

Nei tuoi lavori in corso la parola promette un accesso inaspettato nella tridimensionalità. E’ questo un modo per liberare la parola dalla costrizione della pagina? O per esplorare un nuovo percorso per quella che chiami la percezione bipede dell’arte?

La parola per liberarsi dalla pagina deve nascere nella pagina. Se la parola si prende lo spazio di una parete, e ci combatte e dialoga, lo fa per aver qualcosa da dire in un sistema di riferimento fenomenico, che sintetizzando chiamerei architettura. I lavori che sto recentemente sperimentando vanno quindi in questa direzione: da un lato si appoggiano a regole interne al codice del linguaggio, come la grammatica per esempio, dall’altro presuppongo una mobilità – bipede – che fa riferimento ad una qualità animale che esclude la conoscenza di codici linguistici. Sono frasi che chiedono al lettore di camminare nella stanza al fine di essere lette, e questo porta il pubblico a mettere a fuoco – anche inconsapevolmente – i limiti dello spazio che lo circonda. Mettere a fuoco i limiti dello spazio è il primo passo verso una consapevolezza del potere strumentale dell’interfaccia spaziale, e quindi l’inizio di un cammino in direzione della conoscenza dell’attorno. Parlo d’interfaccia perché considero l’architettura la tecnologia base, e a differenza di altre tecnologie, è l’unica che percorre tutta la storia dell’arte: indipendentemente da intenti o realizzazioni l’opera d’arte prima o dopo ha bisogno di lei per esistere. Questa tipologia di nuovi lavori, che qui è una fava, prende quindi due volatili, che qui sono piccioni, che potremmo chiamare tempo e spazio.

2. L’apparenza inganna

ovvero: la molteplicità degli strati, le metafore, le letture plurime

Nell’attraversamento fisico e mentale del tuo lavoro, il visitatore / viaggiatore è guidato o invitato a perdersi in una molteplicità di mondi diversi: le possibili interpretazioni iniziali vengono contraddette e confutate dai dettagli che emergono ad un’osservazione più ravvicinata. Quando le soglie di attenzione si abbassano drammaticamente e rapidamente, mi chiedo se questa non sia una scelta per avvicinare un pubblico più ampio e far si che l’audience si possa relazionare al tuo lavoro indipendentemente dalla capacità di lettura e concentrazione.

È assolutamente così, anche se in pratica non funziona. Ovvero l’assenza di determinazione finale crea confusione e obbliga a trovare da sé una soluzione, e non è detto che chiunque abbia voglia di farlo, e sinceramente lo capisco. Non condivido l’idea che l’arte debba fornire soluzioni, ma comprendo il motivo per cui sempre più persone glielo chiedono. Quindi l’apparenza inganna significa prima di tutto che questo tentativo di pseudo-democratizzazione è fallimentare, e va nella direzione opposta, ovvero verso una proposta artistica esclusivista ed elitaria. Nel paradosso sono a mio agio, lo comprendo e ne intuisco la portata. Come interpretare il concetto stesso di democrazia se non attraverso il paradosso? Il rendersi conto di lavorare per pochi, di appartenere ad una minoranza, non nega la possibilità di costante espansione, l’attivazione di dialoghi fondamentali con chi non la pensa come noi. Ho avuto la fortuna e la possibilità di crescere rendendomi conto di quanto è grande il mondo, e di quanti molteplici punti di vista esistono, e nel mio piccolo cerco di dare voce a tutti quelli che esistono in me. Questo non vuol dire che sento le voci, che ho disturbi di personalità o che sono particolarmente indeciso: analizzo la co-presenza di punti di vista – la discussione interna – al fine di solidificare la soluzione finale – l’output esterno. Questa solidificazione permetterà al lavoro di vivere facendo convivere contraddizioni, ma la sua esistenza, la sua verità sensoriale di opera d’arte, è sempre una scelta ben precisa e indissolubilmente unica.

3. Tutto il mondo è paese

ovvero: sulla diversità, il tempo le generazioni

Un elemento importante della riflessione che informa il tuo lavoro è il come della relazione con l’altro da te. Una cosa che mi affascina del tuo pensare la differenza è il modo che hai di articolarla nel tempo e nello spazio: in termini di generazioni come in termini di alterità socio-culturale.

A livello temporale, credo che il lavoro dell’artista non sia dissimile da quello dello scienziato: si continua un discorso iniziato da altri e lo si consegna nelle mani delle generazioni a venire. Questo dovrebbe aiutarci a pensare al nostro operato come ad una porzione di tempo minima rispetto alla vita dell’idea che soggiace ad esso, e in generale, ci dovrebbe far credere nell’esistenza delle intuizioni e nella totale assenza del genio. A livello spaziale invece – e tu viaggi molto più di me e sicuramente sai di cosa sto parlando – è molto più interessante ragionare su ciò che abbiamo in comune rispetto a ciò che ci differenzia l’uno dall’altro, perché questo “comune” di cui parlo sarà sicuramente extralinguistico e sensoriale, quindi non definito ma in costruzione. Mi è capitato recentemente, per esempio, di ritrovare in una zuppa di alghe il sapore del soffritto che faceva mia nonna con le creste di gallo – e ho capito che si trattava del medesimo sapore dai brividi che si sono impossessati del mio corpo tutto d’un tratto. In generale – visto che vivo in Europa – ti potrei dire che è facilmente percepibile un clima socio-politico in cui vige il disaccordo fra gli stati, mascherato da ricatti numerici, e quindi diplomatiche soluzioni teoriche che abbiamo imparato a chiamare accordi trasversali. Quindi tutto il mondo è paese, ma solo e finché esisteranno i paesi.

4. Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace

ovvero: sulla questione della dimensione estetica

In che modo prende forma il tuo lavoro? La dimensione fenomenologica è fondamentale nel tuo pensiero, che ruolo ha la dimensione estetica nel progettare l’esperienza del tuo lavoro?

Vivendo, mi accorgo che ci sono attimi straordinari, e son porzioni minime di quella meravigliosa e terribile operazione di default che chiamiamo vita. Il lavoro è il tentativo di riprendere quegli attimi, e l’estetica è il metodo con cui far tornare quegli attimi sulla realtà, farli riatterrare nuovamente dopo una prima comparsa in forma di vita. Da questo punto di vista è fondamentale l’approccio fenomenico, perché è incontrovertibile… so che il mio corpo non mente, mentre la mia mente perde corpo quotidianamente. Infatti il concetto di ciò che è bello risiede nella sfera estetica, mentre il concetto (molto più divertente) di ciò che piace prende vita nella sfera dell’esperienza sensoriale.

Riccardo Benassi, Left Elbow. Spatial intervention. Handmade curved PVC, spray paint (505 x 55 x 11 cm) 2012

5. Vedere lucciole per lanterne

ovvero: un viaggio in ottica Correlazionista

Nella nostra chiacchierata a zig zag dentro, fuori e oltre i cliché non potevano mancare i neologismi. Parlami della definizione di ottica Correlazionista, si tratta di una nuova scelta di percorso? Una nuova concettualizzazione della relazione fra spazio, oggetti, persone, pensieri, parole?

In ottica Correlazionista, chiunque ha il diritto di vedere lucciole per lanterne, soprattutto le lucciole – che si conoscono meglio di come le conosciamo noi. Ho chiamato Correlazionista la possibilità di creare legami di significato nuovi e inaspettati tra significanti apparentemente distanti. Non credo che il mondo abbia bisogno di particolari neologismi, piuttosto credo nella necessità di nuovi significati per parole d’uso comune. Spingo chiunque a farlo, senza dovere spiegazioni a nessuno – non per un eccesso di individualismo, ma per evidenziare il fatto che non sono necessarie, perché ognuno può trovare le sue, fidandosi di se stesso e della propria percezione del reale. La patologia che soggiace al Correlazionismo viene banalmente definita “disturbo d’attenzione” ed è tipica di una generazione che è cresciuta con tecnologie multitasking, quindi con il vizio o la virtù di fare più cose contemporaneamente senza riuscire a concentrarsi per lunghi periodi di tempo. Quando qualcuno attorno a te incollerà sulla tua fronte con ostinazione l’etichetta di “Post-“ (post-moderno, post-politico, post-concettuale, ecc.) sarà per te naturale avere la sensazione di essere arrivato in ritardo, e quando qualcuno incollerà – sempre sulla tua fronte spaziosa – l’etichetta di “Neo-“ non ti sentirai in anticipo, ma ti sentirai un bambino per sempre… Credo che sia giunto il momento per gli artisti di trovare un modo – a ciascuno il suo – per scollarsi di dosso questi giochi di parole insignificanti. Il gioco che ho chiamato Correlazionismo è infatti la dimensione adatta ad un momento storico in cui non ci si può permettere di avere un unico lavoro e non ha più senso occupare esclusivamente un ruolo all’interno del sistema della produzione di conoscenza. In alcuni campi del sapere il professionismo è necessario, in altri è un metodo per reiterare storicamente delle falsità.

6. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei

ovvero: i maestri, i distacchi e le influenze

Chi sono le persone e quali sono i pensieri che ti hanno guidato e ti guidano nel tuo percorso di ricerca? Quali le affinità e quali le prese di distanza?

I compagni di viaggio sono molto più importanti dei maestri, perché sono vivi. (con chi vai non presuppone forse uno spostamento? Ti dirò chi seiinvece – non promette, definendolo, di uccidere un divenire?) Io sono stato molto fortunato perché ho incontrato maestri che sono diventati compagni di viaggio, tra questi particolarmente importanti in questo momento della mia vita sono Piero Frassinelli / Superstudio, Jimmie Durham, Brandon LaBelle e Liam Gillick.

7. Si stava meglio quando si stava peggio

ovvero: il ruolo della tecnologia

Parli spesso del tuo lavoro in termini di elaborazione e realizzazione di interfacce. Cos’è o chi è che metti in relazione? E che ruolo gioca la tecnologia in questo percorso di costruzione di ponti?

Tecnologia significa Politica, così come il crescente tecno-feticismo è un segnale di una progressiva depauperazione delle menti. Mi piace pensare che un’opera possa essere utilizzata dall’utente, ovvero che torni da lui quando meno se lo aspetta per essergli in qualche modo utile. Anche quando si tratta di un tipo di funzionalismo totalmente irrazionale l’opera d’arte mira sempre al raggiungimento di una vita migliore. Si stava meglio quando si stava peggio manifesta apertamente il tentativo di intravedere in momenti storici che non si sono vissuti delle soluzioni per il presente – e funziona solo ed unicamente perché focalizza un’unità di tempo non esperibile sensorialmente. In breve, quel peggio contenuto nella frase riguarda altre persone e non noi stessi – adesso – e questo lo rende un male facilmente digeribile. Mentre il meglio contenuto nella frase ha secondo me a che vedere con un rigurgito anti-tecnologico, una volontà di ritrovare un certo tipo di naturalezza smarrita, come le aiuole e i ritagli di verde pubblico nelle grandi città italiane. Ma – esattamente come le aiuole – questo tipo di ritorno (organizzato) al naturale sembra più adatto ad altri tipi di animali che a noi bipedi.

8. Chi lascia la via vecchia per la nuova sa quella che lascia, ma non sa quella che trova.

ovvero: quali progetti per il futuro?

Che prospettive nell’immediato futuro? Quali idee di ricerca? Che sfide ti aspetti?

Mi sono reso conto che mi mancavano nozioni fondamentali di economia, ed è su quello che da neofita mi sto concentrando al momento – perché viviamo un momento storico estremamente interessante da questo punto di vista e vorrei essere in grado di comprenderlo a pieno. Una delle mie volontà è anche quella di riuscire a non definire univocamente il mio ruolo di artista all’interno della società, in modo da mantenere un approccio flessibile e adatto ad accogliere e determinare gli eventi. In fondo mi aspetto – come ognuno di noi – di capire qualcosa di più di questa esistenza, e sto mettendo a punto a questo proposito dei nuovi meccanismi narrativi.

9. Al contadino non far sapere quanto è buono il cacio con le pere

ovvero: questo non l’ho mai capito, me lo spieghi?

Significa che se ogni persona si rendesse conto di quanto vale la sua esperienza di vita, finiremmo tutti ad essere artisti… e infatti sta succedendo.