Farina e sangue

Guardare a Gaza da Kabul amplifica tutto, compreso il senso di impotenza.

È dal 7 ottobre che non passa giorno senza che si creda di aver visto il peggio e invece, con ogni giorno che passa, la misura dell’orrore si estende e lacera quel poco che resta dei brandelli di milioni di cuori infranti.

Quando i soldati israeliani hanno postato i selfie con la biancheria intima saccheggiata dai cassetti delle case palestinesi appena distrutte pensavo avessimo toccato il fondo. Poi sono arrivate le foto dei soldati che posavano allegri rannicchiati nelle culle dei bambini appena uccisi. E poi i rave parties dei coloni israeliani che ballavano per bloccare l’accesso ai camion che trasportavano gli aiuti umanitari. E poi i droni che sparavano sui bambini che facevano volare gli aquiloni al confine con l’Egitto. E poi le statistiche agghiaccianti dei bambini che muoiono di fame quotidianamente.

Pensavo non potesse esserci peggio. Pensavo che ormai avessimo in bocca il sapore dell’apocalisse.

E poi è arrivato quello che passerà alla storia come il massacro del pane. Gli israeliani hanno definito uno spiacevole incidente la strage appena compiuta dall’esercito che ha sparato sulla folla che cercava di prendere i pochi aiuti umanitari a cui Israele consente l’accesso. Il bilancio (provvisorio) dell’“incidente” è di 104 morti e 700 feriti.

Fatico a trovare il senso e fatico a completare il respiro, c’è un senso di fallimento che mi si strozza in gola. Qualche giorno fa in un’intervista hanno chiesto a Humza Yousaf, il primo ministro scozzese, quale fosse il suo messaggio per gli abitanti di Gaza. E la sua risposta, con voce spezzata, è stata: Scusateci, l’umanità ha fallito.

E allora, scusa Gaza per tutto quello che non abbiamo fatto e continuiamo a non fare. Peggio di così forse non si può, non ci resta che affrontare il dolore del fallimento e quindi forse non ci resta che fare un po’ meglio: continuare ad indignaci e a denunciare perché questo orrore non diventi la norma.

Perché non è vero che dobbiamo rassegnarci a vivere in un mondo che non ci piace.