
L’altra sera a cena, un giornalista in visita a Kabul per la prima volta mi ha chiesto se in Afghanistan in questo particolare momento storico si possa immaginare che le espressioni artistiche e creative abbiano spazio e modo di sopravvivere. Dal tono della domanda era chiaro che stesse dando per scontata una risposta negativa.
Se non odiassi la parola resilienza probabilmente sarei partita da lì per rispondere.
Immaginare che non (r)esistano spazi di creatività è come pensare che si possa sopravvivere senza respirare o fare l’amore. Non c’è niente di eroico né di volontaristico, è parte necessaria della vita – ed è per questo non mi piace la parola resilienza. È come se romanticizzasse la sofferenza in nome del riscatto del senso di umanità.
Qualche giorno fa, sui social media ho visto il video di due bambini a Gaza che con una corda e un pezzo di gomma piuma hanno costruito un’altalena e si sono messi a giocare fra le macerie di una casa distrutta.
Per quanto piccolo e disperato possa essere, quel barlume di umanità resiste e sopravvive: danza, racconta poesie, inventa nuovi giochi, dipinge scenari di futuri possibili.
È difficile che la guerra l’abbia vinta sulla vita. I costi sono alti, tremendi, ma alla fine è sempre la guerra a perdere.
