Li chiamano rimpatri

A Kabul la neve paralizza l’aeroporto; alcuni dicono sia colpa del ghiaccio, altri pensano che ci sia un problema con i radar che non distinguono i fiocchi di neve dagli altri oggetti volanti. Per tornare, ho fatto scalo ad Istanbul dove l’aereo è arrivato in ritardo dall’Italia là per là non me ne sono preoccupata convinta che il volo per Kabul non sarebbe partito per via della neve e invece atterro e vedo sul display la scritta rossa lampeggiante “Ultima Chiamata.”

Salgo sull’aereo di corsa convinta di essere l’ultima. L’aereo è pieno, per lo più giovani uomini afghani, fra venti e trent’anni, con l’aria sperduta. C’è odore di sudore e panni non lavati. Siamo fermi sulla pista da una buona mezzora quando il capitano ci dice – solo in turco e in inglese – che per il maltempo e per questioni indipendenti dalla sua volontà il volo è posticipato ed ha un ritardo indefinito. Poi ci invita a sbarcare non prima, però, dell’arrivo della polizia. Con voce priva di emozione aggiunge che prima di poter scendere, dobbiamo aspettare che le forze dell’ordine completino le formalità di sbarco per i “deportati.” I giovani uomini afghani sono dunque quelli arrivati come clandestini e che adesso la maggior parte dei paesi europei sta rispendendo in Afghanistan.

Deportati.

L’onestà della definizione mi ha colpito come un pugno allo stomaco – forse non necessariamente con fini politici, ma questa semplice frase del comandate mi ha dato la misura dell’orrore di cui sono stata testimone impotente.

Nei corridoi stretti dell’aereo, passano in fila indiana, vicini vicini, uno dietro l’altro, con gli occhi grandi di paura. Fuori c’è una notte gelida e la maggior parte di loro ha giacche leggere e maglioncini sottili; nevica a vento, alcuni portano i sandali. Hanno tutti una grande busta di plastica trasparente: mutande, calzini, un asciugamano rosa; tutto in vista, nessuna considerazione per un senso di decoro privato. Guardo e sto zitta, incapace di radunare abbastanza coraggio per denunciare la follia di quanto mi sta succedendo sotto gli occhi.

Poco prima di Natale, un’amica di amici mi aveva chiesto di dare una mano ad un ragazzo rispedito a Kabul dopo vent’anni passati in giro per il mondo come rifugiato. Ho fatto appena in tempo a sentirlo per telefono: era terrorizzato, in Afghanistan non conosceva nessuno e stava per attraversare il confine per passare ancora volta in Iran dove c’era già parte della sua famiglia prima di rimettersi in viaggio. Un mese fa ho letto di un ragazzo appena rimpatriato – si, le deportazioni forzate vengono chiamate rimpatri per non offendere coloro che hanno lo stomaco sensibile – che è rimasto vittima di uno dei sanguinosi attacchi a Kabul: era arrivato in Afghanistan il giorno prima.

Questi ragazzi sono quelli di cui parlano con la schiuma alla bocca gli xenofobi di mezzo mondo, sono quelli che minacciano la nostra sicurezza e i nostri diritti acquisiti, sono quelli che minano la nostra civiltà.

Bisognerebbe avere la possibilità di guardare queste persone in faccia anche solo per un secondo per capire che l’unica cosa che è a rischio in questo momento è la nostra umanità. Sono la prima a dichiararmi colpevole di indifferenza giustificata dall’ignoranza. Avevo letto delle deportazioni, alcuni miei colleghi mi avevano detto che anche il loro volo per Kabul era pieno di giovani uomini scortati dalla polizia. Sapevo e ho ignorato, mi è servito vedere con i miei occhi per rendermi conto dell’enormità di cui siamo complici e adesso scrivo per placare i sensi di colpa e con la speranza che le parole possano aiutare altri a vedere quello che è più comodo ignorare.

La paura ci sta rendendo ciechi. Guardiamo dall’altra parte per evitare di prendere posizione, io non ho avuto la forza di alzarmi e gridare la mia indignazione. Mi sono sentita morire dentro e non sono stata capace di dirlo ad alta voce. L’ignavia facilita il fascismo, mai come adesso il silenzio ci rende complici. Ma da soli non ci si riesce – o almeno io non ci riesco – a superare le barriere insormontabili del qualunquismo. Le scelte di solidarietà e di umanità sono necessariamente collettive, condivise, parlate ad alta voce, sofferte e sentite con cuore molteplice. Forse è per questo che scrivo oggi. Per non sentirmi sola. Per sapere che non sono sola.