Prima e dopo

Qualche settimana fa, una persona che conosco da anni mi ha scritto per dirmi che dagli ultimi bollettini le era sembrato che fossi molto disturbata dalla situazione a Gaza. L’osservazione mi ha colto di sorpresa e la mia immediata reazione è stata di irrigidimento, ovviamente sono molto disturbata – lo sono io e lo sono molte delle persone a me care, come si fa a non essere profondamente disturbati e continuare ad andare avanti come se niente fosse?

Quell’osservazione continua a farmi pensare.

Sono passate 28 settimane dal 7 ottobre e questo periodo marca per me un chiaro prima e dopo. Una frase di un film uscito di recente mi ha molto colpito e mi ronza nella testa: “Cosa ha cambiato in me Gaza? Il mio intero essere.”

C’è un facile rischio di retorica, ma credo che questo sia vero anche per me: più nel senso dello svelamento che in termini di cambiamento. La lotta per l’autodeterminazione della Palestina è stata parte integrante della mia formazione politica ed è un elemento fondamentale del mio stare al mondo da più di trent’anni. In questo senso, quindi, c’è poco da cambiare.

Cosa dunque ha cambiato in me Gaza?

Mi ha messo di fronte a me stessa in modi inaspettati.

Non prendere posizione non è un privilegio a cui ho diritto. Non correre rischi per le mie idee politiche non è un privilegio a cui ho diritto. Non ho il diritto di girare lo sguardo e far finta di non vedere.

Per chi come me scrive per mestiere, c’è il dovere deontologico di parole chiare e precise. Un assassino è un assassino; un genocidio è un genocidio; una strage di innocenti non è un incidente, ma un massacro; un bambino non muore di fame per caso, ma è ucciso da un preciso disegno strategico. 

Il silenzio e il quieto vivere sono forme di complicità che non voglio più avallarle. Non sono scelte che condivido e che rispetto e quindi non voglio far finta che siamo tutti amici come prima.

In un momento di lutto così accecante, c’è però una comunità che si sta ritrovando. Una comunità di maglie strette e maglie larghe, di gente lontana e vicina, conosciuta e sconosciuta che vive chiaramente un prima e un dopo, che si riconosce in questo cambiamento irrevocabile e si sostiene a vicenda alla luce di questa cesura.

Una delle immagini più terribili che ho visto in queste 28 settimane e che non mi abbandonerà mai più è quella di un seme di dattero che ha germogliato fra le dita di una persona sepolta sotto le macerie. Un orrore e un miracolo allo stesso tempo. Una metafora devastante che non ha bisogno di spiegazioni. Uno spiraglio e forse un auspicio sulla forza indomabile della resistenza e della solidarietà.

La resa dei conti

È più di un mese che cerco le parole.

Il monito di Audre Lorde sulla tirannia del silenzio ha continuato a risuonarmi nelle orecchie mentre facevo i conti per tutti questi giorni con l’incapacità di articolare la rabbia e lo sconforto, con lo smarrimento e l’incredulità rispetto al punto di non ritorno che l’umanità ha raggiunto in questo mese.

Niente potrà mai essere come prima. Spero che l’orrore di queste settimane ci rimanga addosso come l’onta di vergogna di un marchio a fuoco e ci impedisca di dimenticare e ci costringa a decidere chi vogliamo essere, da che parte vogliamo stare, cosa vogliamo insegnare ai nostri figli, come troviamo il coraggio di guardarci allo specchio la mattina.

Niente potrà mai essere come prima. Certe immagini – il loro significato, il loro dolore, le loro conseguenze – non dovranno mai più cancellarsi né dalla memoria individuale né da quella ancestrale che l’umanità tramanda per generazioni.

Un papà raccoglie nelle buste di plastica della spazzatura i resti dei figli uccisi dalle bombe. I bambini prematuri muoiono perché hanno distrutto le infrastrutture degli ospedali e le incubatrici non hanno più di cosa essere alimentate. Le urla dei sopravvissuti sotto le macerie. La puzza delle fosse comuni.

Cosa significa per una madre scrivere il nome sul corpo di un figlio perché così può essere un morto identificabile o un superstite rintracciabile e non un anonimo computo in una statistica? Dove trova quella mano la forza per scrivere quel nome?

Scrivo e mi sale la nausea.

Siamo a un punto di non ritorno. Siamo alla resa dei conti con noi stessi e con chi ci sta intorno. Chi non prende posizione è complice. Non ci sono silenziosi osservatori innocenti.

Stringiamoci a chi trova il coraggio di resistere. Ritroviamoci. Sosteniamoci come comunità. Mettiamoci in ascolto del disagio, della paura, dell’angoscia di chi ci sta vicino. In questo momento di non ritorno, è chiaro chi resta nella nostra vita e chi no – o si sta da una parte o dall’altra. L’indifferenza è una scelta ed è una scelta criminale.

La solidarietà ha un prezzo, costa fatica e corre rischi. Celebriamo il coraggio di chi sceglie di correre questi rischi – non perdiamo l’occasione di una parola di sostegno, in mezzo a tanto orrore la gentilezza può ancora aiutare a costruire piccoli ponti e può far sì che ci sentiamo meno soli e meno abbandonati al declino dell’umanità. 

Leggevo da qualche parte che la resistenza è la più grande forma d’amore. Allora resistiamo insieme, come scelta suprema di riscatto. Sosteniamoci a vicenda nella rivendicazione del diritto all’autodeterminazione.

L’obiettivo non è il cessate il fuoco. L’obiettivo è la fine dell’occupazione, degli abusi, di monopolio della condizione di vittime in nome del quale Israele sta commettendo atrocità abominevoli.

L’obiettivo è che con la liberazione della Palestina arriviamo collettivamente alla liberazione del senso di umanità che per ora è sepolto sotto le macerie degli ospedali di Gaza.

Li chiamano rimpatri

A Kabul la neve paralizza l’aeroporto; alcuni dicono sia colpa del ghiaccio, altri pensano che ci sia un problema con i radar che non distinguono i fiocchi di neve dagli altri oggetti volanti. Per tornare, ho fatto scalo ad Istanbul dove l’aereo è arrivato in ritardo dall’Italia là per là non me ne sono preoccupata convinta che il volo per Kabul non sarebbe partito per via della neve e invece atterro e vedo sul display la scritta rossa lampeggiante “Ultima Chiamata.”

Salgo sull’aereo di corsa convinta di essere l’ultima. L’aereo è pieno, per lo più giovani uomini afghani, fra venti e trent’anni, con l’aria sperduta. C’è odore di sudore e panni non lavati. Siamo fermi sulla pista da una buona mezzora quando il capitano ci dice – solo in turco e in inglese – che per il maltempo e per questioni indipendenti dalla sua volontà il volo è posticipato ed ha un ritardo indefinito. Poi ci invita a sbarcare non prima, però, dell’arrivo della polizia. Con voce priva di emozione aggiunge che prima di poter scendere, dobbiamo aspettare che le forze dell’ordine completino le formalità di sbarco per i “deportati.” I giovani uomini afghani sono dunque quelli arrivati come clandestini e che adesso la maggior parte dei paesi europei sta rispendendo in Afghanistan.

Deportati.

L’onestà della definizione mi ha colpito come un pugno allo stomaco – forse non necessariamente con fini politici, ma questa semplice frase del comandate mi ha dato la misura dell’orrore di cui sono stata testimone impotente.

Nei corridoi stretti dell’aereo, passano in fila indiana, vicini vicini, uno dietro l’altro, con gli occhi grandi di paura. Fuori c’è una notte gelida e la maggior parte di loro ha giacche leggere e maglioncini sottili; nevica a vento, alcuni portano i sandali. Hanno tutti una grande busta di plastica trasparente: mutande, calzini, un asciugamano rosa; tutto in vista, nessuna considerazione per un senso di decoro privato. Guardo e sto zitta, incapace di radunare abbastanza coraggio per denunciare la follia di quanto mi sta succedendo sotto gli occhi.

Poco prima di Natale, un’amica di amici mi aveva chiesto di dare una mano ad un ragazzo rispedito a Kabul dopo vent’anni passati in giro per il mondo come rifugiato. Ho fatto appena in tempo a sentirlo per telefono: era terrorizzato, in Afghanistan non conosceva nessuno e stava per attraversare il confine per passare ancora volta in Iran dove c’era già parte della sua famiglia prima di rimettersi in viaggio. Un mese fa ho letto di un ragazzo appena rimpatriato – si, le deportazioni forzate vengono chiamate rimpatri per non offendere coloro che hanno lo stomaco sensibile – che è rimasto vittima di uno dei sanguinosi attacchi a Kabul: era arrivato in Afghanistan il giorno prima.

Questi ragazzi sono quelli di cui parlano con la schiuma alla bocca gli xenofobi di mezzo mondo, sono quelli che minacciano la nostra sicurezza e i nostri diritti acquisiti, sono quelli che minano la nostra civiltà.

Bisognerebbe avere la possibilità di guardare queste persone in faccia anche solo per un secondo per capire che l’unica cosa che è a rischio in questo momento è la nostra umanità. Sono la prima a dichiararmi colpevole di indifferenza giustificata dall’ignoranza. Avevo letto delle deportazioni, alcuni miei colleghi mi avevano detto che anche il loro volo per Kabul era pieno di giovani uomini scortati dalla polizia. Sapevo e ho ignorato, mi è servito vedere con i miei occhi per rendermi conto dell’enormità di cui siamo complici e adesso scrivo per placare i sensi di colpa e con la speranza che le parole possano aiutare altri a vedere quello che è più comodo ignorare.

La paura ci sta rendendo ciechi. Guardiamo dall’altra parte per evitare di prendere posizione, io non ho avuto la forza di alzarmi e gridare la mia indignazione. Mi sono sentita morire dentro e non sono stata capace di dirlo ad alta voce. L’ignavia facilita il fascismo, mai come adesso il silenzio ci rende complici. Ma da soli non ci si riesce – o almeno io non ci riesco – a superare le barriere insormontabili del qualunquismo. Le scelte di solidarietà e di umanità sono necessariamente collettive, condivise, parlate ad alta voce, sofferte e sentite con cuore molteplice. Forse è per questo che scrivo oggi. Per non sentirmi sola. Per sapere che non sono sola.