
Febbraio a Kabul è sempre il mese più freddo dell’anno. Un mese fatto di blackout, di nevicate e di speranza che di neve ce ne sia abbastanza per scongiurare la paura della siccità. La prima nevicata dell’anno qui si festeggia con dolci e scambi di auguri.
Ho scritto per la prima volta della neve a Kabul più di dieci anni fa, essere di ritorno dopo tanto tempo e con la neve mi dà l’impressione di chiudere un vecchio cerchio ed aprire un nuovo ciclo.
Mai come in questo momento, il ritorno è piuttosto un arrivo. Tutto è familiare, ma tutto è da capire da capo; con occhi nuovi, liberi da pregiudizi e da conclusioni tirate ancora prima di comprendere a fondo dettagli e premesse.
Sono qui da più di tre settimane e scrivo solo adesso perché forse solo adesso ho trovato il coraggio di guardare in faccia la paura di essere fraintesa e prendere in mano il desiderio di raccontare le dissonanze che emergono qui ogni momento rispetto a versioni della storia opposte, ma comunque ideologiche e polarizzanti.
Dopo la nevicata di stanotte, Kabul è tutta grigia di neve calpestata e avvolta in un cielo incerto che non sa se rimanere nebuloso o buttar giù ancora neve. Sono tutte queste sfumature di grigio ad essere le più difficili da rappresentare. Più passano i giorni e più mi rendo conto che le verità proclamate non reggono il confronto con la realtà; che le regole e le eccezioni convivono fianco a fianco; che la paura rischia di trasformare la vita in sopravvivenza; e che spiragli di speranza e possibilità si aprono in mezzo alle migliaia di contraddizioni.
Nella sua brutale bellezza, L’Afghanistan ha un modo unico di infilarsi sotto la pelle e richiamare a sé, di far sì che ci sia sempre una ragione per tornare, una domanda da inseguire, una transizione epocale a cui assistere, un motivo per mettere in questione se stessi, le proprie idee e pregiudizi. È un paese disarmante, che in qualche modo lascia sempre soli davanti a sé stessi e alle ragioni delle proprie scelte.