
In questi giorni continua a tornarmi spesso in mente il titolo di un libro di Sergio Atzeni, il libro parla di altro, ma il titolo continua a risuonarmi dentro come un invito: passavamo sulla terra leggeri.
A quasi un anno dall’inizio del genocidio, c’è una campagna del Museum of Palestine intitolata Gaza Remains the Story (Gaza continua ad essere la storia). Una delle provocazioni poetiche della campagna ci interpella chiedendo: How do you lighten your steps as you walk over the rubble, so that those buried under do not have to carry the burden of your weight? (come fai ad alleggerire il passo quando cammini sulle macerie così che quelli che vi sono seppelliti sotto non debbano provare la fatica del tuo peso?)
Queste due esortazioni risuonano nella mia testa come un unisono, un invito unico – personale e politico, individuale e collettivo – a ripensare il peso dei nostri passi e di conseguenza la direzione delle nostre scelte.
La dimensione egotistica del concetto di impatto è legata ad un passaggio e ad una presenza di peso, che lascia il segno. Nel bene o nel male, come invito o minaccia, il peso e l’impatto sono termini frequenti tanto nei percorsi pedagogici che nella retorica degli interventi civilizzatori, di “sviluppo” o umanitari.
E se fosse tutto sbagliato? Se la violenza del segno che si lascia non sia la radice necessaria del cambiamento?
Se il passare leggeri – rispettosi e delicati, cauti e gentili, lenti e teneri – fosse il modo di stare al mondo per sé stessi e per gli altri? Un modo che rispetta la terra che si calpesta, che dà precedenza alla cura radicata nel presente e non finalizzata ad un esito futuro, che dà valore alla reciprocità anziché al profitto? Un passo leggero che rispetta i morti che abbiamo lasciato sepolti sotto macerie reali e simboliche, un passo leggero che insegna ai bambini la gentilezza, un passo leggero che ci aiuta a stare al mondo in un momento di dolore e violenza inauditi.