Una brava persona

Le ultime sono state settimane difficili di grande fatica emotiva e momenti di buio in cui mi sono trovata faccia a faccia con il rischio tangibile di diventare la persona che non voglio essere, insofferente, distaccata e preceduta da una nuvola nera di malumore.

Per quanto possa suonare trito, a volte è proprio vero che bisogna confrontarsi con l’oscurità per rendersi conto della luce.

Il risultato di tanta fatica è che questi giorni infatti mi hanno fatto capire che forse l’obiettivo principale della mia vita è quello di essere una brava persona. Può forse sembrare ingenuo, ma penso che in un momento storico come quello che stiamo vivendo questo possa davvero tradursi in una scelta politica radicale.

Non lasciarsi sopraffare dalla paura e dal sospetto, mantenere un atteggiamento curioso, aperto e disponibile. Credo che una scelta del genere in questo momento possa rappresentare l’unica radice possibile per riformare il sociale, per contribuire in modo costruttivo ad un modo diverso di pensare alla collettività. Questa forse è l’unica via possibile per emanciparci dai modelli e dai consumi che ci incanalano verso un’uniformità grigia e senza volto.

Penso alla scelta di semplicità che hanno fatto i miei genitori, penso al lavoro di inclusione e rispetto che fa mia sorella. L’investimento sull’integrità della persona e della pratica è l’unica strada possibile per non soccombere a questi tempi spaventosi, per non cedere alla volgarità delle urla, degli sputi e della violenza. Ne parlavo ieri sera con Sandi Hilal in una delle nostre preziose conversazioni transoceaniche: la grande sfida per il futuro è quella di coltivare il coraggio di mantenere aperte le porte di casa, di investire sull’ospitalità e lo scambio. Il passo difficile è quello di renderci conto che questa scelta personale diventa responsabilità civica, che la scelta di come viviamo il nostro oggi ha immense ripercussioni politiche.

L’ambizione più grande è dunque quella di essere una brava persona – ritrovando anche il coraggio di non preoccuparsi di essere fuori moda.

(Dedicato a Sandi Hilal)

L’arte è bipede

Riccardo Benassi, Novembre 2006 © Paolo Sante Cisi

Riccardo Benassi, Novembre 2006 © Paolo Sante Cisi

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Una conversazione fra Riccardo Benassi e Francesca Recchia avvenuta il 9 luglio del 2012 al Café Gorky Park di Berlino / anche intesa come un’intervista pre-Techno Casa.

C’è un inevitabile, imbarazzante fondo di verità nel senso comune. Una guida inconscia all’interpretazione del mondo: una chiave, una lente d’ingrandimento, un invito alla sovversione. Il lavoro di Riccardo Benassi sembra prendere forma in questo spazio indefinito e indefinibile, giocando sulla linea sottile che trasforma la familiarità in straniamento.

In questa conversazione, dieci idiomi, dieci modi di dire, dieci inconfutabili banalità ci guidano alla scoperta dell’inaspettato.

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0. Tra il dire e il fare…

Ovvero: la scultura e la scrittura

Questa fase del tuo lavoro sembra segnare un passaggio marcato dalla progettazione di spazi alla preponderanza della parola scritta, che comunque ha sempre avuto un ruolo importante. Le parole e le cose occupano due sfere semantiche ed epistemologiche diverse e la distinzione fra le due spesso si inserisce nella gerarchia non scritta fra pensiero ed azione. Quali sono le tue coordinate in questa transizione?

Lawrence Wiener ha recentemente affermato che i giovani artisti dovrebbero raccontare di meno e fare di più, ed è interessante se ci pensi che questo consiglio arrivi proprio da un padre concettuale che ha fatto del linguaggio la materia prima del suo lavoro. Se è vero che l’utilizzo del linguaggio non presuppone la narrazione, allora l’unico motivo per cui ha davvero senso raccontare è forse quello di far succedere quello che si racconta. Mi piace pensare che organizzare tridimensionalmente uno spazio architettonico vuoto equivalga in qualche modo ad organizzare bidimensionalmente lo spazio di una pagina bianca. Per questo motivo molti dei miei ultimi lavori, dopo essere stati ambienti, suoni, fotografie o sculture, diventano poi dei libri, o qualcosa di simile a libri. Partendo da questo presupposto, viene semplice immaginare un tipo di scrittura che mira ad esaltare la fenomenicità degli eventi, o ad un tipo di ambiente che diventa narrazione. Creare un’opera è il tentativo di dare forma ad una sensazione che ho provato – o sto provando – al fine di permettere ad altri di darle senso. Infatti credo che anche quando un’opera fa appello ad un mondo o ad una popolazione che ancora non esiste, lo fa partendo dalle sensazioni che – in vita – l’artista ha provato. L’utilizzo del linguaggio è quindi questa sorta di ponte levatoio tra me e i nuovi incontri. Di solito il ponte levatoio serve ad attraversare un fossato, è una sfumatura tra uno spazio indoor e uno outdoor, ma in questo caso sappiamo che predispone le derive, serve ad attraversare il mare che sta tra il dire e il fare. Si potrebbe dire che io e l’architettura, così come io e il linguaggio, ci aiutiamo a vicenda. Parte della mia ricerca si concentra sul rapporto vigente tra contenuto e contenitore, sull’occupazione temporanea – attraverso il suono – del vuoto che l’architettura lascia alle sue spalle. Studiare questo rapporto significa in qualche modo ricalibrare il mio valore in qualità di artista all’interno della società. Mi sembra inoltre che oggi il linguaggio sia quotidianamente sottoposto ad attacchi semantici atti a coadiuvare diverse tipologie di utilizzi strumentali che impongono la dissoluzione dei significati soggettivi – e l’idea di narrazione che sto sviluppando oppone un certo tipo di resistenza a questa degenerazione.

1. Prendere due piccioni con una fava

Ovvero: la scrittura che diventa scultura

Nei tuoi lavori in corso la parola promette un accesso inaspettato nella tridimensionalità. E’ questo un modo per liberare la parola dalla costrizione della pagina? O per esplorare un nuovo percorso per quella che chiami la percezione bipede dell’arte?

La parola per liberarsi dalla pagina deve nascere nella pagina. Se la parola si prende lo spazio di una parete, e ci combatte e dialoga, lo fa per aver qualcosa da dire in un sistema di riferimento fenomenico, che sintetizzando chiamerei architettura. I lavori che sto recentemente sperimentando vanno quindi in questa direzione: da un lato si appoggiano a regole interne al codice del linguaggio, come la grammatica per esempio, dall’altro presuppongo una mobilità – bipede – che fa riferimento ad una qualità animale che esclude la conoscenza di codici linguistici. Sono frasi che chiedono al lettore di camminare nella stanza al fine di essere lette, e questo porta il pubblico a mettere a fuoco – anche inconsapevolmente – i limiti dello spazio che lo circonda. Mettere a fuoco i limiti dello spazio è il primo passo verso una consapevolezza del potere strumentale dell’interfaccia spaziale, e quindi l’inizio di un cammino in direzione della conoscenza dell’attorno. Parlo d’interfaccia perché considero l’architettura la tecnologia base, e a differenza di altre tecnologie, è l’unica che percorre tutta la storia dell’arte: indipendentemente da intenti o realizzazioni l’opera d’arte prima o dopo ha bisogno di lei per esistere. Questa tipologia di nuovi lavori, che qui è una fava, prende quindi due volatili, che qui sono piccioni, che potremmo chiamare tempo e spazio.

2. L’apparenza inganna

ovvero: la molteplicità degli strati, le metafore, le letture plurime

Nell’attraversamento fisico e mentale del tuo lavoro, il visitatore / viaggiatore è guidato o invitato a perdersi in una molteplicità di mondi diversi: le possibili interpretazioni iniziali vengono contraddette e confutate dai dettagli che emergono ad un’osservazione più ravvicinata. Quando le soglie di attenzione si abbassano drammaticamente e rapidamente, mi chiedo se questa non sia una scelta per avvicinare un pubblico più ampio e far si che l’audience si possa relazionare al tuo lavoro indipendentemente dalla capacità di lettura e concentrazione.

È assolutamente così, anche se in pratica non funziona. Ovvero l’assenza di determinazione finale crea confusione e obbliga a trovare da sé una soluzione, e non è detto che chiunque abbia voglia di farlo, e sinceramente lo capisco. Non condivido l’idea che l’arte debba fornire soluzioni, ma comprendo il motivo per cui sempre più persone glielo chiedono. Quindi l’apparenza inganna significa prima di tutto che questo tentativo di pseudo-democratizzazione è fallimentare, e va nella direzione opposta, ovvero verso una proposta artistica esclusivista ed elitaria. Nel paradosso sono a mio agio, lo comprendo e ne intuisco la portata. Come interpretare il concetto stesso di democrazia se non attraverso il paradosso? Il rendersi conto di lavorare per pochi, di appartenere ad una minoranza, non nega la possibilità di costante espansione, l’attivazione di dialoghi fondamentali con chi non la pensa come noi. Ho avuto la fortuna e la possibilità di crescere rendendomi conto di quanto è grande il mondo, e di quanti molteplici punti di vista esistono, e nel mio piccolo cerco di dare voce a tutti quelli che esistono in me. Questo non vuol dire che sento le voci, che ho disturbi di personalità o che sono particolarmente indeciso: analizzo la co-presenza di punti di vista – la discussione interna – al fine di solidificare la soluzione finale – l’output esterno. Questa solidificazione permetterà al lavoro di vivere facendo convivere contraddizioni, ma la sua esistenza, la sua verità sensoriale di opera d’arte, è sempre una scelta ben precisa e indissolubilmente unica.

3. Tutto il mondo è paese

ovvero: sulla diversità, il tempo le generazioni

Un elemento importante della riflessione che informa il tuo lavoro è il come della relazione con l’altro da te. Una cosa che mi affascina del tuo pensare la differenza è il modo che hai di articolarla nel tempo e nello spazio: in termini di generazioni come in termini di alterità socio-culturale.

A livello temporale, credo che il lavoro dell’artista non sia dissimile da quello dello scienziato: si continua un discorso iniziato da altri e lo si consegna nelle mani delle generazioni a venire. Questo dovrebbe aiutarci a pensare al nostro operato come ad una porzione di tempo minima rispetto alla vita dell’idea che soggiace ad esso, e in generale, ci dovrebbe far credere nell’esistenza delle intuizioni e nella totale assenza del genio. A livello spaziale invece – e tu viaggi molto più di me e sicuramente sai di cosa sto parlando – è molto più interessante ragionare su ciò che abbiamo in comune rispetto a ciò che ci differenzia l’uno dall’altro, perché questo “comune” di cui parlo sarà sicuramente extralinguistico e sensoriale, quindi non definito ma in costruzione. Mi è capitato recentemente, per esempio, di ritrovare in una zuppa di alghe il sapore del soffritto che faceva mia nonna con le creste di gallo – e ho capito che si trattava del medesimo sapore dai brividi che si sono impossessati del mio corpo tutto d’un tratto. In generale – visto che vivo in Europa – ti potrei dire che è facilmente percepibile un clima socio-politico in cui vige il disaccordo fra gli stati, mascherato da ricatti numerici, e quindi diplomatiche soluzioni teoriche che abbiamo imparato a chiamare accordi trasversali. Quindi tutto il mondo è paese, ma solo e finché esisteranno i paesi.

4. Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace

ovvero: sulla questione della dimensione estetica

In che modo prende forma il tuo lavoro? La dimensione fenomenologica è fondamentale nel tuo pensiero, che ruolo ha la dimensione estetica nel progettare l’esperienza del tuo lavoro?

Vivendo, mi accorgo che ci sono attimi straordinari, e son porzioni minime di quella meravigliosa e terribile operazione di default che chiamiamo vita. Il lavoro è il tentativo di riprendere quegli attimi, e l’estetica è il metodo con cui far tornare quegli attimi sulla realtà, farli riatterrare nuovamente dopo una prima comparsa in forma di vita. Da questo punto di vista è fondamentale l’approccio fenomenico, perché è incontrovertibile… so che il mio corpo non mente, mentre la mia mente perde corpo quotidianamente. Infatti il concetto di ciò che è bello risiede nella sfera estetica, mentre il concetto (molto più divertente) di ciò che piace prende vita nella sfera dell’esperienza sensoriale.

Riccardo Benassi, Left Elbow. Spatial intervention. Handmade curved PVC, spray paint (505 x 55 x 11 cm) 2012

5. Vedere lucciole per lanterne

ovvero: un viaggio in ottica Correlazionista

Nella nostra chiacchierata a zig zag dentro, fuori e oltre i cliché non potevano mancare i neologismi. Parlami della definizione di ottica Correlazionista, si tratta di una nuova scelta di percorso? Una nuova concettualizzazione della relazione fra spazio, oggetti, persone, pensieri, parole?

In ottica Correlazionista, chiunque ha il diritto di vedere lucciole per lanterne, soprattutto le lucciole – che si conoscono meglio di come le conosciamo noi. Ho chiamato Correlazionista la possibilità di creare legami di significato nuovi e inaspettati tra significanti apparentemente distanti. Non credo che il mondo abbia bisogno di particolari neologismi, piuttosto credo nella necessità di nuovi significati per parole d’uso comune. Spingo chiunque a farlo, senza dovere spiegazioni a nessuno – non per un eccesso di individualismo, ma per evidenziare il fatto che non sono necessarie, perché ognuno può trovare le sue, fidandosi di se stesso e della propria percezione del reale. La patologia che soggiace al Correlazionismo viene banalmente definita “disturbo d’attenzione” ed è tipica di una generazione che è cresciuta con tecnologie multitasking, quindi con il vizio o la virtù di fare più cose contemporaneamente senza riuscire a concentrarsi per lunghi periodi di tempo. Quando qualcuno attorno a te incollerà sulla tua fronte con ostinazione l’etichetta di “Post-“ (post-moderno, post-politico, post-concettuale, ecc.) sarà per te naturale avere la sensazione di essere arrivato in ritardo, e quando qualcuno incollerà – sempre sulla tua fronte spaziosa – l’etichetta di “Neo-“ non ti sentirai in anticipo, ma ti sentirai un bambino per sempre… Credo che sia giunto il momento per gli artisti di trovare un modo – a ciascuno il suo – per scollarsi di dosso questi giochi di parole insignificanti. Il gioco che ho chiamato Correlazionismo è infatti la dimensione adatta ad un momento storico in cui non ci si può permettere di avere un unico lavoro e non ha più senso occupare esclusivamente un ruolo all’interno del sistema della produzione di conoscenza. In alcuni campi del sapere il professionismo è necessario, in altri è un metodo per reiterare storicamente delle falsità.

6. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei

ovvero: i maestri, i distacchi e le influenze

Chi sono le persone e quali sono i pensieri che ti hanno guidato e ti guidano nel tuo percorso di ricerca? Quali le affinità e quali le prese di distanza?

I compagni di viaggio sono molto più importanti dei maestri, perché sono vivi. (con chi vai non presuppone forse uno spostamento? Ti dirò chi seiinvece – non promette, definendolo, di uccidere un divenire?) Io sono stato molto fortunato perché ho incontrato maestri che sono diventati compagni di viaggio, tra questi particolarmente importanti in questo momento della mia vita sono Piero Frassinelli / Superstudio, Jimmie Durham, Brandon LaBelle e Liam Gillick.

7. Si stava meglio quando si stava peggio

ovvero: il ruolo della tecnologia

Parli spesso del tuo lavoro in termini di elaborazione e realizzazione di interfacce. Cos’è o chi è che metti in relazione? E che ruolo gioca la tecnologia in questo percorso di costruzione di ponti?

Tecnologia significa Politica, così come il crescente tecno-feticismo è un segnale di una progressiva depauperazione delle menti. Mi piace pensare che un’opera possa essere utilizzata dall’utente, ovvero che torni da lui quando meno se lo aspetta per essergli in qualche modo utile. Anche quando si tratta di un tipo di funzionalismo totalmente irrazionale l’opera d’arte mira sempre al raggiungimento di una vita migliore. Si stava meglio quando si stava peggio manifesta apertamente il tentativo di intravedere in momenti storici che non si sono vissuti delle soluzioni per il presente – e funziona solo ed unicamente perché focalizza un’unità di tempo non esperibile sensorialmente. In breve, quel peggio contenuto nella frase riguarda altre persone e non noi stessi – adesso – e questo lo rende un male facilmente digeribile. Mentre il meglio contenuto nella frase ha secondo me a che vedere con un rigurgito anti-tecnologico, una volontà di ritrovare un certo tipo di naturalezza smarrita, come le aiuole e i ritagli di verde pubblico nelle grandi città italiane. Ma – esattamente come le aiuole – questo tipo di ritorno (organizzato) al naturale sembra più adatto ad altri tipi di animali che a noi bipedi.

8. Chi lascia la via vecchia per la nuova sa quella che lascia, ma non sa quella che trova.

ovvero: quali progetti per il futuro?

Che prospettive nell’immediato futuro? Quali idee di ricerca? Che sfide ti aspetti?

Mi sono reso conto che mi mancavano nozioni fondamentali di economia, ed è su quello che da neofita mi sto concentrando al momento – perché viviamo un momento storico estremamente interessante da questo punto di vista e vorrei essere in grado di comprenderlo a pieno. Una delle mie volontà è anche quella di riuscire a non definire univocamente il mio ruolo di artista all’interno della società, in modo da mantenere un approccio flessibile e adatto ad accogliere e determinare gli eventi. In fondo mi aspetto – come ognuno di noi – di capire qualcosa di più di questa esistenza, e sto mettendo a punto a questo proposito dei nuovi meccanismi narrativi.

9. Al contadino non far sapere quanto è buono il cacio con le pere

ovvero: questo non l’ho mai capito, me lo spieghi?

Significa che se ogni persona si rendesse conto di quanto vale la sua esperienza di vita, finiremmo tutti ad essere artisti… e infatti sta succedendo.