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Passavamo sulla terra leggeri

In questi giorni continua a tornarmi spesso in mente il titolo di un libro di Sergio Atzeni, il libro parla di altro, ma il titolo continua a risuonarmi dentro come un invito: passavamo sulla terra leggeri.

A quasi un anno dall’inizio del genocidio, c’è una campagna del Museum of Palestine intitolata Gaza Remains the Story (Gaza continua ad essere la storia). Una delle provocazioni poetiche della campagna ci interpella chiedendo: How do you lighten your steps as you walk over the rubble, so that those buried under do not have to carry the burden of your weight? (come fai ad alleggerire il passo quando cammini sulle macerie così che quelli che vi sono seppelliti sotto non debbano provare la fatica del tuo peso?)

Queste due esortazioni risuonano nella mia testa come un unisono, un invito unico – personale e politico, individuale e collettivo – a ripensare il peso dei nostri passi e di conseguenza la direzione delle nostre scelte.

La dimensione egotistica del concetto di impatto è legata ad un passaggio e ad una presenza di peso, che lascia il segno. Nel bene o nel male, come invito o minaccia, il peso e l’impatto sono termini frequenti tanto nei percorsi pedagogici che nella retorica degli interventi civilizzatori, di “sviluppo” o umanitari.

E se fosse tutto sbagliato? Se la violenza del segno che si lascia non sia la radice necessaria del cambiamento?

Se il passare leggeri – rispettosi e delicati, cauti e gentili, lenti e teneri – fosse il modo di stare al mondo per sé stessi e per gli altri? Un modo che rispetta la terra che si calpesta, che dà precedenza alla cura radicata nel presente e non finalizzata ad un esito futuro, che dà valore alla reciprocità anziché al profitto? Un passo leggero che rispetta i morti che abbiamo lasciato sepolti sotto macerie reali e simboliche, un passo leggero che insegna ai bambini la gentilezza, un passo leggero che ci aiuta a stare al mondo in un momento di dolore e violenza inauditi.

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Farina e sangue

Guardare a Gaza da Kabul amplifica tutto, compreso il senso di impotenza.

È dal 7 ottobre che non passa giorno senza che si creda di aver visto il peggio e invece, con ogni giorno che passa, la misura dell’orrore si estende e lacera quel poco che resta dei brandelli di milioni di cuori infranti.

Quando i soldati israeliani hanno postato i selfie con la biancheria intima saccheggiata dai cassetti delle case palestinesi appena distrutte pensavo avessimo toccato il fondo. Poi sono arrivate le foto dei soldati che posavano allegri rannicchiati nelle culle dei bambini appena uccisi. E poi i rave parties dei coloni israeliani che ballavano per bloccare l’accesso ai camion che trasportavano gli aiuti umanitari. E poi i droni che sparavano sui bambini che facevano volare gli aquiloni al confine con l’Egitto. E poi le statistiche agghiaccianti dei bambini che muoiono di fame quotidianamente.

Pensavo non potesse esserci peggio. Pensavo che ormai avessimo in bocca il sapore dell’apocalisse.

E poi è arrivato quello che passerà alla storia come il massacro del pane. Gli israeliani hanno definito uno spiacevole incidente la strage appena compiuta dall’esercito che ha sparato sulla folla che cercava di prendere i pochi aiuti umanitari a cui Israele consente l’accesso. Il bilancio (provvisorio) dell’“incidente” è di 104 morti e 700 feriti.

Fatico a trovare il senso e fatico a completare il respiro, c’è un senso di fallimento che mi si strozza in gola. Qualche giorno fa in un’intervista hanno chiesto a Humza Yousaf, il primo ministro scozzese, quale fosse il suo messaggio per gli abitanti di Gaza. E la sua risposta, con voce spezzata, è stata: Scusateci, l’umanità ha fallito.

E allora, scusa Gaza per tutto quello che non abbiamo fatto e continuiamo a non fare. Peggio di così forse non si può, non ci resta che affrontare il dolore del fallimento e quindi forse non ci resta che fare un po’ meglio: continuare ad indignaci e a denunciare perché questo orrore non diventi la norma.

Perché non è vero che dobbiamo rassegnarci a vivere in un mondo che non ci piace.