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Dove trovi la luce / Where you find light

Gli ultimi giorni sono stati pieni di pensieri sulla politica, sulla speranza, sulle contraddizioni che vivono all’interno di ogni essere umano. E sulla bellezza che si nasconde sotto queste contraddizioni se mi dò la possibilità di cercarla.

Sono pensieri nati da incontri e ritrovamenti.

Il ritrovamento dei vecchi amici d’infanzia con cui ci confrontiamo sulla politica bella e quella brutta mentre ricordiamo antiche scorribande.

E l’incontro con una persona ed un gruppo di persone piene di luce, che hanno una storia di vita diversa dalla mia e che sembrano impossibili da accostare a meno che non si lasci aperto uno spiraglio di possibilità.

Kabul, quando sai ascoltare, insegna.

Mi insegna che la luce si trova dove non me l’aspetto, a volte dove per principio non la vorrei vedere. È una realizzazione che brucia e che segna, ma che non si lascia dimenticare.

Che la luce c’è, e bisogna riconoscerla ed abbracciarla, e lasciarsi accompagnare in giorni come questi di desolata umanità.

Che la luce c’è. È questo che ho imparato negli ultimi giorni da questa persona e da questo gruppo di persone e ho intenzione di dedicarmi a questo insegnamento.

Accogliere la luce dove la trovo. La luce che mi prende di sorpresa e che può essere coltivata insieme anche se questo insieme è un conglomerato improbabile di storie diverse.

La luce che mi disorienta ma che richiede attenzione e una risposta di adesione e cura.

Una luce che mi scalda e che, per quanto chieda di essere coltivata, finisce per essere nutrimento per i semi del cambiamento e per la possibilità di una speranza rivoluzionaria.

***

The last few days have been full of thoughts about politics, hope and the contradictions that live within every human being.

And about the beauty that can be found hidden behind these contradictions if I allow myself the chance to look for it.

These thoughts came from new encounters and a rekindling.

The rekindling with old childhood friends with whom we discuss good and ugly politics while reminiscing of old mischiefs.

And the encounter with a person and a group of people full of light. They come from a very different life journey and would have been difficult to meet unless a crack of possibility is allowed to stay open.

Kabul teaches a lot to those who can listen.

She teaches that I can find light where I don’t expect it, sometimes where, out of principle, I would prefer not to see it. It is a burning realisation, one that I will not forget.

She teaches that there is light. And that I need to recognise it and embrace it and let it guide me in these days of desolate humanity.

She teaches that there is light – this is what I learned in the last few days from this person and this group of people, and I am now committed to cultivate this lesson.

To welcome the light where I find it. The light that takes me by surprise and can be nurtured together even if this together is an improbable conglomerate of different life stories.

A disorientating light that demands attention and requests commitment and care.

A light that warms me up and that, even though it requires nurturing, ends up in turn nourishing the seeds of change and the possibility of a revolutionary hope.

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Grey

February in Kabul is the coldest month of the year; a month made of power cuts, snowfalls and the hope that there would be enough snow to avert the fear of forthcoming droughts. The first snowfall is always celebrated with an exchange of wishes and sweets.

I wrote about snow in Kabul for the first time more than ten years ago. Now I am back in the city after a very long time and there is snow again and I have the impression of closing an old circle while opening a new cycle.

Never like in this conjuncture, a return feels more like an arrival. Everything is familiar and yet everything is also to be understood afresh, from scratch; everything is to be looked at with new eyes free of prejudice, without the bias of conclusions reached even before fully comprehending details and premises.

I have been here for more than three weeks, but I write only now because probably it is only now that I have mastered the courage to face the fear of being misunderstood and to embrace the desire to highlight the dissonances that emerge every day against opposite polarising and ideological narratives.

After last night’s snowfall, Kabul is all grey; covered by worn and trampled snow and wrapped by an uncertain sky that doesn’t seem to know if it wants to stay hazy or send more snow. It is all these shades of grey that are the most difficult to represent. As days go by, I realise that shouted truths no longer hold when faced with reality; that rules and exceptions coexist side by side; that fear may turn life into survival; that glimpses of hope and possibility open up among millions of contradictions.

In its brutal beauty, Afghanistan has a unique way to crawl under my skin, to call me back and always give me a reason to return, one more question to chase, an epochal transformation to witness, an opportunity to question myself, my ideas and my prejudices. It is a disarming country, that somehow always leaves me alone and bare in front of myself and the reasons of my choices.

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Grigio

Febbraio a Kabul è sempre il mese più freddo dell’anno. Un mese fatto di blackout, di nevicate e di speranza che di neve ce ne sia abbastanza per scongiurare la paura della siccità. La prima nevicata dell’anno qui si festeggia con dolci e scambi di auguri.

Ho scritto per la prima volta della neve a Kabul più di dieci anni fa, essere di ritorno dopo tanto tempo e con la neve mi dà l’impressione di chiudere un vecchio cerchio ed aprire un nuovo ciclo.

Mai come in questo momento, il ritorno è piuttosto un arrivo. Tutto è familiare, ma tutto è da capire da capo; con occhi nuovi, liberi da pregiudizi e da conclusioni tirate ancora prima di comprendere a fondo dettagli e premesse.

Sono qui da più di tre settimane e scrivo solo adesso perché forse solo adesso ho trovato il coraggio di guardare in faccia la paura di essere fraintesa e prendere in mano il desiderio di raccontare le dissonanze che emergono qui ogni momento rispetto a versioni della storia opposte, ma comunque ideologiche e polarizzanti.

Dopo la nevicata di stanotte, Kabul è tutta grigia di neve calpestata e avvolta in un cielo incerto che non sa se rimanere nebuloso o buttar giù ancora neve. Sono tutte queste sfumature di grigio ad essere le più difficili da rappresentare. Più passano i giorni e più mi rendo conto che le verità proclamate non reggono il confronto con la realtà; che le regole e le eccezioni convivono fianco a fianco; che la paura rischia di trasformare la vita in sopravvivenza; e che spiragli di speranza e possibilità si aprono in mezzo alle migliaia di contraddizioni.

Nella sua brutale bellezza, L’Afghanistan ha un modo unico di infilarsi sotto la pelle e richiamare a sé, di far sì che ci sia sempre una ragione per tornare, una domanda da inseguire, una transizione epocale a cui assistere, un motivo per mettere in questione se stessi, le proprie idee e pregiudizi. È un paese disarmante, che in qualche modo lascia sempre soli davanti a sé stessi e alle ragioni delle proprie scelte.

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Spectacles

It has been a few days since one of my students at the Institute is having a hard time reading and writing and his school results have gone down. We asked a few questions and we discovered that he broke his spectacles and his family does not have money to buy new ones (about 30$ between frames and lenses).

Another one is always tired; his eyes are red, and he struggles to focus. I called him to my office and asked him what was going on. He said that there is no problem, and everything is normal. For him normal means living in a tiny room behind the woodworking workshop of his cousin. After school he works there to earn a bit of money and then in the evening he goes for tuition. His family is in Kuduz, probably the most dangerous part of the country right now. I asked him to come and stay at the students’ dorm, but he declined the offer: I think he fears that if he moves out of his cousin workshop he’ll lose the opportunity to earn a little.

There is a boy who is emotionally unstable, his parents tell him he’s good for nothing and he only finds peace of mind when he draws. He told us: “People say I am crazy.” At the Institute, he’s just a boy like anyone else: he’s found his little world and a bit of tranquillity.

Another student is distracted and absent-minded, we catch him often staring at the void. His brother – to whom he resembles immensely – has been killed in a bomb-blast last year, it has recently been the first anniversary. How can we help him restore an emotional balance?

I have been back in Kabul only for three days and these are the stories that welcomed me. Yet again, a unique opportunity to put my priorities in order and remember not to take anything for granted.

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Occhiali

È un po’ di giorni che uno dei miei studenti all’Istituto fa fatica a leggere e scrivere e i suoi risultati scolastici sono peggiorati. Abbiamo fatto un po’ di domande e abbiamo scoperto che gli si sono rotti gli occhiali e la famiglia non ha i soldi per ricomperarglieli (30 euro fra lenti e montatura).

Un altro è sempre stanco e ha gli occhi rossi, fa fatica a concentrarsi. L’ho chiamato nel mio ufficio e gli ho chiesto che stava succedendo. Mi ha detto che non c’è nessun problema ed è tutto normale. La sua normalità consiste nel vivere in una stanzetta dietro al laboratorio di falegnameria del cugino, quando esce da scuola lavora un po’ lì per tirare su qualche soldo e poi la sera va a ripetizioni. La sua famiglia è a Kunduz, una delle zone più pericolose del paese. Gli ho chiesto di venire a stare al dormitorio, preferisce di no; credo che non voglia perdere quei soldini che riesce a guadagnare vivendo nel laboratorio.

Un ragazzo ha problemi di stabilità emotiva, i genitori gli dicono che è un buono a niente, il suo unico momento di pace è quando disegna. Ci ha detto: “Dicono tutti che sono pazzo.” All’Istituto è un ragazzo come gli altri, ha trovato il suo mondo e un po’ di tranquillità.

Un altro studente è assente e distratto, a volte lo si sorprende a guardare nel vuoto. Suo fratello – a cui lui assomiglia in maniera incredibile – è stato ucciso in un attentato un anno fa, e c’è appena stato il primo anniversario. Come si fa ad aiutarlo a ricostruire un equilibrio emotivo?

Sono tornata a Kabul solo da tre giorni e sono queste le storie che mi hanno accolto. Ancora una volta, un’occasione unica per rimettere in ordine le priorità e ricordarmi di non dare niente per scontato.

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Li chiamano rimpatri

A Kabul la neve paralizza l’aeroporto; alcuni dicono sia colpa del ghiaccio, altri pensano che ci sia un problema con i radar che non distinguono i fiocchi di neve dagli altri oggetti volanti. Per tornare, ho fatto scalo ad Istanbul dove l’aereo è arrivato in ritardo dall’Italia là per là non me ne sono preoccupata convinta che il volo per Kabul non sarebbe partito per via della neve e invece atterro e vedo sul display la scritta rossa lampeggiante “Ultima Chiamata.”

Salgo sull’aereo di corsa convinta di essere l’ultima. L’aereo è pieno, per lo più giovani uomini afghani, fra venti e trent’anni, con l’aria sperduta. C’è odore di sudore e panni non lavati. Siamo fermi sulla pista da una buona mezzora quando il capitano ci dice – solo in turco e in inglese – che per il maltempo e per questioni indipendenti dalla sua volontà il volo è posticipato ed ha un ritardo indefinito. Poi ci invita a sbarcare non prima, però, dell’arrivo della polizia. Con voce priva di emozione aggiunge che prima di poter scendere, dobbiamo aspettare che le forze dell’ordine completino le formalità di sbarco per i “deportati.” I giovani uomini afghani sono dunque quelli arrivati come clandestini e che adesso la maggior parte dei paesi europei sta rispendendo in Afghanistan.

Deportati.

L’onestà della definizione mi ha colpito come un pugno allo stomaco – forse non necessariamente con fini politici, ma questa semplice frase del comandate mi ha dato la misura dell’orrore di cui sono stata testimone impotente.

Nei corridoi stretti dell’aereo, passano in fila indiana, vicini vicini, uno dietro l’altro, con gli occhi grandi di paura. Fuori c’è una notte gelida e la maggior parte di loro ha giacche leggere e maglioncini sottili; nevica a vento, alcuni portano i sandali. Hanno tutti una grande busta di plastica trasparente: mutande, calzini, un asciugamano rosa; tutto in vista, nessuna considerazione per un senso di decoro privato. Guardo e sto zitta, incapace di radunare abbastanza coraggio per denunciare la follia di quanto mi sta succedendo sotto gli occhi.

Poco prima di Natale, un’amica di amici mi aveva chiesto di dare una mano ad un ragazzo rispedito a Kabul dopo vent’anni passati in giro per il mondo come rifugiato. Ho fatto appena in tempo a sentirlo per telefono: era terrorizzato, in Afghanistan non conosceva nessuno e stava per attraversare il confine per passare ancora volta in Iran dove c’era già parte della sua famiglia prima di rimettersi in viaggio. Un mese fa ho letto di un ragazzo appena rimpatriato – si, le deportazioni forzate vengono chiamate rimpatri per non offendere coloro che hanno lo stomaco sensibile – che è rimasto vittima di uno dei sanguinosi attacchi a Kabul: era arrivato in Afghanistan il giorno prima.

Questi ragazzi sono quelli di cui parlano con la schiuma alla bocca gli xenofobi di mezzo mondo, sono quelli che minacciano la nostra sicurezza e i nostri diritti acquisiti, sono quelli che minano la nostra civiltà.

Bisognerebbe avere la possibilità di guardare queste persone in faccia anche solo per un secondo per capire che l’unica cosa che è a rischio in questo momento è la nostra umanità. Sono la prima a dichiararmi colpevole di indifferenza giustificata dall’ignoranza. Avevo letto delle deportazioni, alcuni miei colleghi mi avevano detto che anche il loro volo per Kabul era pieno di giovani uomini scortati dalla polizia. Sapevo e ho ignorato, mi è servito vedere con i miei occhi per rendermi conto dell’enormità di cui siamo complici e adesso scrivo per placare i sensi di colpa e con la speranza che le parole possano aiutare altri a vedere quello che è più comodo ignorare.

La paura ci sta rendendo ciechi. Guardiamo dall’altra parte per evitare di prendere posizione, io non ho avuto la forza di alzarmi e gridare la mia indignazione. Mi sono sentita morire dentro e non sono stata capace di dirlo ad alta voce. L’ignavia facilita il fascismo, mai come adesso il silenzio ci rende complici. Ma da soli non ci si riesce – o almeno io non ci riesco – a superare le barriere insormontabili del qualunquismo. Le scelte di solidarietà e di umanità sono necessariamente collettive, condivise, parlate ad alta voce, sofferte e sentite con cuore molteplice. Forse è per questo che scrivo oggi. Per non sentirmi sola. Per sapere che non sono sola.

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The things that I don’t know

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Yesterday the cousin of one of our teachers has been killed in a targeted assassination. It felt like one of those stories that you read on the newspaper and you think they will never be part of your life because they belong to a foreign elsewhere. One of those stories that are beyond the ordinary and have nothing to do with the normality of the everyday.

I am here to run a school. Before I started, my idea of what my routine would look like included the revision of teaching methods, the achievement of artistic excellence, grades and disciplinary notes. What turned out to be a part of my ordinary administration is also the management of situations that are extraordinary, alien and emotionally destabilising – which, however, in a country at war are sadly integral to daily life.

Impermanence and transience are difficult to conceive as some of the inevitable ingredients of our life; they are difficult to digest as a force that roots you in the present rather than as a windstorm that erases any sense of direction.

The concept of resilience is often abused and quoted far too frequently and light-hardheartedly. But it is moments like this, when all the things that I don’t know lay bare, that reveal the mysterious strength that we have inside and we’re often not aware of. It is an immense force that helps keeping things together; that helps continuing to look ahead; a silent strength that protects the desire – as Vittorio Arrigoni used to say – to stay human.

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Le cose che non so

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Ieri il cugino di uno dei nostri insegnanti è stato ucciso in un assassinio mirato. Una di quelle storie che si leggono sui giornali, lontane milioni di anni luce, che pensi non faranno mai parte della tua vita perché appartengono ad un altrove sconosciuto. Una di quelle storie fuori dall’ordinario che non hanno niente a che fare con la normalità del quotidiano.

Sono qui che gestisco una scuola. La mia immaginazione di quella che sarebbe stata la mia routine prima che cominciassi a lavorare includeva la revisione dei metodi d’insegnamento, il conseguimento dell’eccellenza artistica, pagelle e note disciplinari. Quello che in realtà ora fa parte della mia ordinaria amministrazione è la gestione di situazioni al di fuori della norma, aliene, emotivamente destabilizzanti, che in un paese in guerra, invece, rappresentano tristemente la quotidianità.

L’impermanenza e la transitorietà sono difficili da elaborare come ingredienti inevitabili del nostro vissuto di ogni giorno; sono difficili da digerire in quanto forza radicante nel presente e non come vento di tempesta che cancella il senso della direzione.

Il concetto di resilienza è abusato e tirato in ballo troppo spesso e con troppa leggerezza. Ma momenti come questo, che mettono a nudo tutte le cose che non so, rivelano anche la misteriosa forza che abbiamo dentro e di cui spesso non siamo a conoscenza. Una forza immensa e silenziosa che ci aiuta a tenere insieme i pezzi, a continuare a guardare avanti; che protegge la volontà, come diceva Vittorio Arrigoni, di restare umani.

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A Kabul la resistenza si fa arte

trainingcraftsmenUn viaggio nella capitale afgana tra teatri occupati, tele in cemento e spazi restaurati. A cui registi, poeti e altri artisti, decisi a combattere contro ingiustizie e pregiudizi, ridanno vita.

Grazie Giuliano Battiston per questo bell’articolo che parla anche del nostro lavoro e dell’Istituto Afgano di Arte e Architettura.

Qui il link all’articolo.