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Passavamo sulla terra leggeri

In questi giorni continua a tornarmi spesso in mente il titolo di un libro di Sergio Atzeni, il libro parla di altro, ma il titolo continua a risuonarmi dentro come un invito: passavamo sulla terra leggeri.

A quasi un anno dall’inizio del genocidio, c’è una campagna del Museum of Palestine intitolata Gaza Remains the Story (Gaza continua ad essere la storia). Una delle provocazioni poetiche della campagna ci interpella chiedendo: How do you lighten your steps as you walk over the rubble, so that those buried under do not have to carry the burden of your weight? (come fai ad alleggerire il passo quando cammini sulle macerie così che quelli che vi sono seppelliti sotto non debbano provare la fatica del tuo peso?)

Queste due esortazioni risuonano nella mia testa come un unisono, un invito unico – personale e politico, individuale e collettivo – a ripensare il peso dei nostri passi e di conseguenza la direzione delle nostre scelte.

La dimensione egotistica del concetto di impatto è legata ad un passaggio e ad una presenza di peso, che lascia il segno. Nel bene o nel male, come invito o minaccia, il peso e l’impatto sono termini frequenti tanto nei percorsi pedagogici che nella retorica degli interventi civilizzatori, di “sviluppo” o umanitari.

E se fosse tutto sbagliato? Se la violenza del segno che si lascia non sia la radice necessaria del cambiamento?

Se il passare leggeri – rispettosi e delicati, cauti e gentili, lenti e teneri – fosse il modo di stare al mondo per sé stessi e per gli altri? Un modo che rispetta la terra che si calpesta, che dà precedenza alla cura radicata nel presente e non finalizzata ad un esito futuro, che dà valore alla reciprocità anziché al profitto? Un passo leggero che rispetta i morti che abbiamo lasciato sepolti sotto macerie reali e simboliche, un passo leggero che insegna ai bambini la gentilezza, un passo leggero che ci aiuta a stare al mondo in un momento di dolore e violenza inauditi.

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Se non odiassi la parola resilienza…

L’altra sera a cena, un giornalista in visita a Kabul per la prima volta mi ha chiesto se in Afghanistan in questo particolare momento storico si possa immaginare che le espressioni artistiche e creative abbiano spazio e modo di sopravvivere. Dal tono della domanda era chiaro che stesse dando per scontata una risposta negativa.

Se non odiassi la parola resilienza probabilmente sarei partita da lì per rispondere.

Immaginare che non (r)esistano spazi di creatività è come pensare che si possa sopravvivere senza respirare o fare l’amore. Non c’è niente di eroico né di volontaristico, è parte necessaria della vita – ed è per questo non mi piace la parola resilienza. È come se romanticizzasse la sofferenza in nome del riscatto del senso di umanità.

Qualche giorno fa, sui social media ho visto il video di due bambini a Gaza che con una corda e un pezzo di gomma piuma hanno costruito un’altalena e si sono messi a giocare fra le macerie di una casa distrutta.

Per quanto piccolo e disperato possa essere, quel barlume di umanità resiste e sopravvive: danza, racconta poesie, inventa nuovi giochi, dipinge scenari di futuri possibili.

È difficile che la guerra l’abbia vinta sulla vita. I costi sono alti, tremendi, ma alla fine è sempre la guerra a perdere.

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Prima e dopo

Qualche settimana fa, una persona che conosco da anni mi ha scritto per dirmi che dagli ultimi bollettini le era sembrato che fossi molto disturbata dalla situazione a Gaza. L’osservazione mi ha colto di sorpresa e la mia immediata reazione è stata di irrigidimento, ovviamente sono molto disturbata – lo sono io e lo sono molte delle persone a me care, come si fa a non essere profondamente disturbati e continuare ad andare avanti come se niente fosse?

Quell’osservazione continua a farmi pensare.

Sono passate 28 settimane dal 7 ottobre e questo periodo marca per me un chiaro prima e dopo. Una frase di un film uscito di recente mi ha molto colpito e mi ronza nella testa: “Cosa ha cambiato in me Gaza? Il mio intero essere.”

C’è un facile rischio di retorica, ma credo che questo sia vero anche per me: più nel senso dello svelamento che in termini di cambiamento. La lotta per l’autodeterminazione della Palestina è stata parte integrante della mia formazione politica ed è un elemento fondamentale del mio stare al mondo da più di trent’anni. In questo senso, quindi, c’è poco da cambiare.

Cosa dunque ha cambiato in me Gaza?

Mi ha messo di fronte a me stessa in modi inaspettati.

Non prendere posizione non è un privilegio a cui ho diritto. Non correre rischi per le mie idee politiche non è un privilegio a cui ho diritto. Non ho il diritto di girare lo sguardo e far finta di non vedere.

Per chi come me scrive per mestiere, c’è il dovere deontologico di parole chiare e precise. Un assassino è un assassino; un genocidio è un genocidio; una strage di innocenti non è un incidente, ma un massacro; un bambino non muore di fame per caso, ma è ucciso da un preciso disegno strategico. 

Il silenzio e il quieto vivere sono forme di complicità che non voglio più avallarle. Non sono scelte che condivido e che rispetto e quindi non voglio far finta che siamo tutti amici come prima.

In un momento di lutto così accecante, c’è però una comunità che si sta ritrovando. Una comunità di maglie strette e maglie larghe, di gente lontana e vicina, conosciuta e sconosciuta che vive chiaramente un prima e un dopo, che si riconosce in questo cambiamento irrevocabile e si sostiene a vicenda alla luce di questa cesura.

Una delle immagini più terribili che ho visto in queste 28 settimane e che non mi abbandonerà mai più è quella di un seme di dattero che ha germogliato fra le dita di una persona sepolta sotto le macerie. Un orrore e un miracolo allo stesso tempo. Una metafora devastante che non ha bisogno di spiegazioni. Uno spiraglio e forse un auspicio sulla forza indomabile della resistenza e della solidarietà.

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Farina e sangue

Guardare a Gaza da Kabul amplifica tutto, compreso il senso di impotenza.

È dal 7 ottobre che non passa giorno senza che si creda di aver visto il peggio e invece, con ogni giorno che passa, la misura dell’orrore si estende e lacera quel poco che resta dei brandelli di milioni di cuori infranti.

Quando i soldati israeliani hanno postato i selfie con la biancheria intima saccheggiata dai cassetti delle case palestinesi appena distrutte pensavo avessimo toccato il fondo. Poi sono arrivate le foto dei soldati che posavano allegri rannicchiati nelle culle dei bambini appena uccisi. E poi i rave parties dei coloni israeliani che ballavano per bloccare l’accesso ai camion che trasportavano gli aiuti umanitari. E poi i droni che sparavano sui bambini che facevano volare gli aquiloni al confine con l’Egitto. E poi le statistiche agghiaccianti dei bambini che muoiono di fame quotidianamente.

Pensavo non potesse esserci peggio. Pensavo che ormai avessimo in bocca il sapore dell’apocalisse.

E poi è arrivato quello che passerà alla storia come il massacro del pane. Gli israeliani hanno definito uno spiacevole incidente la strage appena compiuta dall’esercito che ha sparato sulla folla che cercava di prendere i pochi aiuti umanitari a cui Israele consente l’accesso. Il bilancio (provvisorio) dell’“incidente” è di 104 morti e 700 feriti.

Fatico a trovare il senso e fatico a completare il respiro, c’è un senso di fallimento che mi si strozza in gola. Qualche giorno fa in un’intervista hanno chiesto a Humza Yousaf, il primo ministro scozzese, quale fosse il suo messaggio per gli abitanti di Gaza. E la sua risposta, con voce spezzata, è stata: Scusateci, l’umanità ha fallito.

E allora, scusa Gaza per tutto quello che non abbiamo fatto e continuiamo a non fare. Peggio di così forse non si può, non ci resta che affrontare il dolore del fallimento e quindi forse non ci resta che fare un po’ meglio: continuare ad indignaci e a denunciare perché questo orrore non diventi la norma.

Perché non è vero che dobbiamo rassegnarci a vivere in un mondo che non ci piace.

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315 mine

Ieri l’esercito israeliano ha distrutto con 315 mine il campus dell’università di Al-Israa a Gaza – era l’ultima delle sette università della Striscia a restare ancora in piedi. Nel campus dell’università c’era anche un museo che conteneva tremila artefatti rari.

Fino ad ottobre c’erano sette università. Adesso non ce n’è più nessuna.

Al-Israa era stata occupata settanta giorni fa dalle forze israeliane che l’avevano trasformata in un centro di detenzione: vi tenevano in isolamento i civili palestinesi che avevano arrestato prima di interrogarli. L’esercito israeliano ha diffuso il video della detonazione: neanche una manciata di secondi per ridurre in polvere ed eliminare ogni traccia fisica di un’istituzione culturale.

Mentre scrivo arriva anche la notizia della distruzione completa dell’ultimo ospedale funzionante di Gaza.

Fino ad ottobre ce n’erano trentasei. Adesso non ce n’è più nessuno.

È una lista di orrori che sembra essere senza fine.

Le notizie della guerra arrivano a casa come fatti compiuti. Quello di cui siamo testimoni nel quotidiano è il risultato, l’esito: un certo numero di morti; un certo numero di profughi; il successo o il fallimento di una certa operazione militare; le retate; gli arresti; il numero di case, villaggi, scuole, ospedali distrutti.

Quello che in genere non è completamente visibile nella narrazione giornalistica è l’estrema complessità della logistica che sta dietro a queste operazioni.

Continuo a pensare a quelle 315 mine che hanno distrutto Al-Israa – sono tantissime. Tantissime.

Per distruggere un complesso edilizio con 315 mine ci vuole un coordinamento perfetto di forze, mezzi e risorse, ma soprattutto di intenzioni e volontà.

Osservare la logistica della guerra con la sua apparente banalità di catene di comando, meccanizzazioni e gesti in sé “innocenti,” è il modo più terribile di guardare negli occhi la crudeltà.

Oltre alla decisione politica, ci vuole tanta gente che passi tanto tempo a capire e decidere come si distrugge un’università o quanti bulldozers servono per radere al suolo un villaggio o di quanti soldati si ha bisogno per una retata in piena notte.

Per me il più grande orrore della guerra è qui. Nella mente, nella quotidianità, nella routine di tutti coloro che creano le condizioni per distruggere, infliggere morte e desolazione.

L’esito devastante di cui siamo testimoni è il prodotto di un milione di piccoli gesti, di infinite micro-complicità. È per questo che non ha senso parlare di danni collaterali o di errore involontario – non è uno sconto che si può fare a chi è fautore di tanto orrore.

La guerra non è mai necessaria e invece sempre deliberatamente crudele.

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La resa dei conti

È più di un mese che cerco le parole.

Il monito di Audre Lorde sulla tirannia del silenzio ha continuato a risuonarmi nelle orecchie mentre facevo i conti per tutti questi giorni con l’incapacità di articolare la rabbia e lo sconforto, con lo smarrimento e l’incredulità rispetto al punto di non ritorno che l’umanità ha raggiunto in questo mese.

Niente potrà mai essere come prima. Spero che l’orrore di queste settimane ci rimanga addosso come l’onta di vergogna di un marchio a fuoco e ci impedisca di dimenticare e ci costringa a decidere chi vogliamo essere, da che parte vogliamo stare, cosa vogliamo insegnare ai nostri figli, come troviamo il coraggio di guardarci allo specchio la mattina.

Niente potrà mai essere come prima. Certe immagini – il loro significato, il loro dolore, le loro conseguenze – non dovranno mai più cancellarsi né dalla memoria individuale né da quella ancestrale che l’umanità tramanda per generazioni.

Un papà raccoglie nelle buste di plastica della spazzatura i resti dei figli uccisi dalle bombe. I bambini prematuri muoiono perché hanno distrutto le infrastrutture degli ospedali e le incubatrici non hanno più di cosa essere alimentate. Le urla dei sopravvissuti sotto le macerie. La puzza delle fosse comuni.

Cosa significa per una madre scrivere il nome sul corpo di un figlio perché così può essere un morto identificabile o un superstite rintracciabile e non un anonimo computo in una statistica? Dove trova quella mano la forza per scrivere quel nome?

Scrivo e mi sale la nausea.

Siamo a un punto di non ritorno. Siamo alla resa dei conti con noi stessi e con chi ci sta intorno. Chi non prende posizione è complice. Non ci sono silenziosi osservatori innocenti.

Stringiamoci a chi trova il coraggio di resistere. Ritroviamoci. Sosteniamoci come comunità. Mettiamoci in ascolto del disagio, della paura, dell’angoscia di chi ci sta vicino. In questo momento di non ritorno, è chiaro chi resta nella nostra vita e chi no – o si sta da una parte o dall’altra. L’indifferenza è una scelta ed è una scelta criminale.

La solidarietà ha un prezzo, costa fatica e corre rischi. Celebriamo il coraggio di chi sceglie di correre questi rischi – non perdiamo l’occasione di una parola di sostegno, in mezzo a tanto orrore la gentilezza può ancora aiutare a costruire piccoli ponti e può far sì che ci sentiamo meno soli e meno abbandonati al declino dell’umanità. 

Leggevo da qualche parte che la resistenza è la più grande forma d’amore. Allora resistiamo insieme, come scelta suprema di riscatto. Sosteniamoci a vicenda nella rivendicazione del diritto all’autodeterminazione.

L’obiettivo non è il cessate il fuoco. L’obiettivo è la fine dell’occupazione, degli abusi, di monopolio della condizione di vittime in nome del quale Israele sta commettendo atrocità abominevoli.

L’obiettivo è che con la liberazione della Palestina arriviamo collettivamente alla liberazione del senso di umanità che per ora è sepolto sotto le macerie degli ospedali di Gaza.

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Resistere è esistere

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50 anni fa, La Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo vinceva il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia. In occasione dell’anniversario, il film è stato restaurato e CG Entertainment ha lanciato una campagna per pubblicare questa nuova edizione. In sostegno all’iniziativa, mi hanno chiesto di raccogliere dei pensieri in risposta a questa grande opera d’arte.
Il testo
è qui di seguito e questo è il link per sostenere la campagna.

Viviamo tempi cupi, in equilibrio precario fra la paura e l’assuefazione. La grande macchina dell’impero sbuffa in affanno, colpita al cuore da lupi solitari e terroristi organizzati. Il guado tra noi e loro si allarga, un guado definito da scorciatoie spesso solcate da conoscenze superficiali che sembrano convincenti perché elaborate nella lingua incontestabile del populismo rassicurante. Viviamo tempi cupi che sono alimentati da interminabili corsi e ricorsi di vichiana memoria: la storia non insegna, il genere umano non impara dagli errori del passato, la sete di vendetta sazia più del desiderio di trasformazione. La distopia del presente costruisce geografie frammentarie e isolazioniste, disegnate al negativo e fondate sulla divisione. In questo quadro sconfortante invece della possibilità d’incontro, l’unica cosa che sembra moltiplicarsi sono i dispositivi di separazione e i meccanismi di esclusione: muri di cemento, droni dai mille occhi, bobine di filo spinato.

Cinquantadue anni fa, Gillo Pontecorvo girava La Battaglia di Algeri, un film rivoluzionario senza tempo che – raccontando la storia della resistenza algerina e dei primi passi del movimento di liberazione nazionale che hanno condotto al drammatico, ma necessario processo di decolonizzazione – parla al presente con una contemporaneità stupefacente.

Cambiano i termini storici, ma la sostanza resta la stessa. Gli oppressori, i fascismi, i colonialismi passati e presenti reiterano triti argomenti per perpetuare la propria esistenza e asserire un’idea immutabile di passato che confermi la legittimità del proprio privilegio. Il paternalismo benevolente del potere, l’infantilizzazione dell’altro, la discriminazione sulla base del colore della pelle e della religione sopravvivono alla loro stessa stupidità.

In risposta ad uno status quo ingiusto e apparentemente immutabile, la resistenza – politica, civile, disobbediente, armata – continua a vivere rivendicando il diritto all’autodeterminazione, ad un accesso equo alle risorse, alla possibilità di essere gli autori della propria storia.

L’Algeria del 1957 è la Palestina dell’Intifada, è il Kashmir dell’estate di sangue del 2016, è la protesta degli Indiani d’America nella Riserva di Standing Rock.

Qualche tempo fa, in una conversazione i cui toni sono presto diventati animati, un amico mi ha invitato al realismo dicendo che di fronte alla violenza del potere è dovere dell’oppresso accettare la disparità delle forze ed accettare un compromesso. Mi ha detto che devo imparare a distinguere fra l’idealismo e la realpolitik: è tempo di crescere e guardare in faccia la realtà, visto che il sacrificio per la libertà non hai mai portato nessun frutto.

E’ vero, mai come oggi – in giorni di barconi alla deriva, campi profughi delimitati da reti elettrificate e diritto al movimento negato sulla base della religione – è tempo di crescere e guardare in faccia la realtà prendendo atto del fatto che siamo costantemente stimolati a scommettere sulla sopravvivenza e di dimenticarci della nostra esistenza.

Resistere è esistere – vivere a pieno in nome dell’equità e della libertà proponendo un modello diverso dall’oscurantismo che in nome di un dubbio beneficio immediato dissecca le radici dei diritti, del valore della diversità, della necessità di esprimere il proprio sé al di là di categorizzazioni e incasellamenti.

In La Battaglia di Algeri nel sesto giorno dello sciopero generale organizzato dal Fronte di Liberazione Nazionale, il gendarme francese al megafono sollecita la popolazione locale ricordando loro che è la Francia ad essere la loro patria ed è la Francia a sapere ciò che è meglio per il loro futuro e non i “terroristi” che cercano di manipolarli.

In un momento di grande poesia, il piccolo Omar, sgattaiolando tra il filo spinato, riesce a sottrarre il megafono ai Francesi e grida alla folla: “Fratelli algerini, fratelli, coraggio, resistete. Resistete. Non ascoltate quello che vi dicono. L’Algeria sarà libera.”

E’ con l’innocenza di questo bambino, un’innocenza che sopravvive nonostante la guerra, che dobbiamo guardare al futuro, alle potenzialità di un domani non omologato, tenendo stretto il diritto sacrosanto a esistere e resistere.