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Sotto lo stesso cielo / Under the same sky

Photo credit : Lorenzo Tugnoli

Il cielo è grigio e si fa fatica a tenere gli occhi del tutto aperti; da quello spiraglio oggi si vedono nuvole nere e si sente il peso degli anniversari incombenti.

Da quello spiraglio, la polvere e il fumo per le strade di Beirut appannano la vista.

Da quello spiraglio si intravedono le macerie di Gaza e si respirano odori inimmaginabili.

Da quello spiraglio filtra la puzza della cupidigia e l’avidità di chi semina morte.

Da quello spiraglio abbaglia la forza di chi si rifiuta di soccombere, della gente di Gaza che raccoglie il poco che non ha per aiutare il Libano.

Da quello spiraglio entra un barlume di speranza sempre più flebile e sempre più affaticato.

Un barlume che vacilla ma non demorde.

Un barlume che ci chiede di credere ancora in lui.

***

The sky is grey and it is difficult to keep the eyes fully open; from the tiny open crack today one can see black clouds and feel the weight of impending anniversaries.  

From that crack, the dust and the smoke over the streets of Beirut mist up the sight.

From that crack, one catches a glimpse of the rubbles in Gaza and breathes unimaginable smells.  

From that crack filters the stench of greed and the rapacity of those who sow death.

From that crack, the strength of those who refuse to succumb is bedazzling and so are the people of Gaza who share what they don’t have to help Lebanon.

From that crack, enters a glimmer of hope – ever so feeble and ever more tired.

A glimmer that falters but does not give up.

A glimmer that demands to be believed no matter what.

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Passavamo sulla terra leggeri

In questi giorni continua a tornarmi spesso in mente il titolo di un libro di Sergio Atzeni, il libro parla di altro, ma il titolo continua a risuonarmi dentro come un invito: passavamo sulla terra leggeri.

A quasi un anno dall’inizio del genocidio, c’è una campagna del Museum of Palestine intitolata Gaza Remains the Story (Gaza continua ad essere la storia). Una delle provocazioni poetiche della campagna ci interpella chiedendo: How do you lighten your steps as you walk over the rubble, so that those buried under do not have to carry the burden of your weight? (come fai ad alleggerire il passo quando cammini sulle macerie così che quelli che vi sono seppelliti sotto non debbano provare la fatica del tuo peso?)

Queste due esortazioni risuonano nella mia testa come un unisono, un invito unico – personale e politico, individuale e collettivo – a ripensare il peso dei nostri passi e di conseguenza la direzione delle nostre scelte.

La dimensione egotistica del concetto di impatto è legata ad un passaggio e ad una presenza di peso, che lascia il segno. Nel bene o nel male, come invito o minaccia, il peso e l’impatto sono termini frequenti tanto nei percorsi pedagogici che nella retorica degli interventi civilizzatori, di “sviluppo” o umanitari.

E se fosse tutto sbagliato? Se la violenza del segno che si lascia non sia la radice necessaria del cambiamento?

Se il passare leggeri – rispettosi e delicati, cauti e gentili, lenti e teneri – fosse il modo di stare al mondo per sé stessi e per gli altri? Un modo che rispetta la terra che si calpesta, che dà precedenza alla cura radicata nel presente e non finalizzata ad un esito futuro, che dà valore alla reciprocità anziché al profitto? Un passo leggero che rispetta i morti che abbiamo lasciato sepolti sotto macerie reali e simboliche, un passo leggero che insegna ai bambini la gentilezza, un passo leggero che ci aiuta a stare al mondo in un momento di dolore e violenza inauditi.

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La sinagoga di Kabul

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Ci sono luoghi che sembrano fatti della sostanza della leggenda: se ne conosce l’esistenza, si sa che sono lì da qualche parte, ma la loro dimensione fisica rimane astratta e misteriosa.

La sinagoga di Kabul è stata in tutti questi anni quasi un luogo dell’immaginazione – fino a qualche giorno fa.

Avevo letto diversi articoli sull’“ultimo ebreo di Kabul”; sul suo brutto carattere, sulla sua passione per il whisky e sulla contesa con un altro ebreo – poi morto nel frattempo – per rivendicare il primato di essere l’ultimo. Tante storie di colore, ma niente di specifico su questo luogo così raro.

Qualche giorno fa, senza troppo pianificare e in modo quasi casuale, siamo riusciti a visitare la  sinagoga insieme a tre colleghi. Proprio come da copione, il signor Simintov – l’ultimo ebreo – ha risposto al nostro desiderio di andare con la richiesta di una bottiglia di Johnny Walker Etichetta Nera. Essendone ovviamente sprovvisti alle tre di un sabato pomeriggio qualsiasi, abbiamo provato a negoziare, solo per sentirci dire che non si fa credito a nessuno. Dispiaciuti per la mancata opportunità, siamo andati via, ma evidentemente la solitudine ha avuto il sopravvento e il signor Simintov ci ha richiamato dicendo che poteva incontrarci comunque e che invece della bottiglia, per questa volta, avrebbe potuto accettare dei soldi.

Di lui si è scritto molto, o forse troppo, della sinagoga troppo poco.

Dall’esterno i segni riconoscibili di un luogo di culto sono quasi inesistenti: solo l’occhio che già sa riconosce le stelle di David che traforano la finestra la primo piano e decorano il portone sgangherato di metallo turchese. A prima vista il portone sembra socchiuso, in realtà è solo imbarcato e incastrato per il poco uso. Perplessi ci guardiamo intorno e il venditore di sigarette ci indica la porta secondaria: per entrare si passa da un ristorante decorato di arancione che vende kebab e patatine. Attraversata la cucina e varcata la soglia, ai neon abbaglianti si sostituisce la penombra e l’odore stantio di fritto. La balaustra turchese è un intreccio di stelle in ferro battuto. Sono scale poco calpestate, lo strato di polvere è spesso e omogeneo.

Ci fermiamo per un po’ a parlare con il signor Simintov che adesso vive nella stanza che era in passato utilizzata dalle donne per pregare. E’ dipinta di verde acido, la moquette è rosso bordeaux e la stufa a gas perde, l’odore pungente mi fa starnutire. Simintov ci dice che la sinagoga è stata costruita nel 1966 con le donazioni della comunità ebraica di Herat, ci dice che a Kabul ai bei vecchi tempi c’erano centocinquanta famiglie di ebrei. Ci dice che non sono stati i talebani a farli andar via, ma le migrazioni verso Israele e che lo stato d’Israele “se ne fotte” (testualmente) e non ha nessun interesse a restaurare la sinagoga danneggiata da anni di conflitto. La comunità in sé non è mai stata un bersaglio, la guerra non guarda in faccia nessuno.

Finalmente visitiamo la sinagoga. Fuori dalla porta c’è una tazza del gabinetto coperta di polvere e molte finestre hanno i vetri rotti. Entriamo e, attraversando la stanza, lasciamo impronte nella polvere. La sinagoga non ha una copia della Torah, ma in un armadio a muro ci sono vecchie carte e documenti mangiati dal tempo. Le lampade sul muro sono attaccate su dei piccoli cartelli che portano i nomi dei defunti.

E’ un luogo silenzioso, desolato, in abbandono. E’ il cimitero della memoria, è un memento mori, un monumento al tempo che passa.

Per chi, come me, lavora alla conservazione del patrimonio, luoghi come questi parlano direttamente al cuore: sono un’accusa e un invito, una richiesta di fermarsi a pensare. Non si può lottare contro il tempo, non si può salvare ogni luogo, ogni pietra, ogni monumento. Si deve imparare a scegliere, a lasciar andare, ad accettare che l’abbandono ha anche lui un messaggio da comunicare. E poi si può e si deve continuare a raccontare storie perché questi meravigliosi cimiteri della memoria possano continuare a sopravvivere.

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L’odore di Kabul

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Sono appena atterrata a Kabul dopo più di quattro mesi di assenza, la lontananza più lunga in questi cinque anni.

Mi ricordo che una volta il mio amico Ty, che a quel punto mancava da Kabul da un po’, mi aveva chiesto di raccontargli l’odore di Kabul così come mi colpiva appena atterrata. E’ passato qualche anno e mi sono accorta di non averlo mai fatto: meglio tardi che mai.

La prima cosa che arriva alle narici, “in corpo e spirito,” è la polvere: che sfrega sull’asfalto, che copre le rose, che crea una patina opaca che offusca la vista. E poi c’è l’odore della plastica che si scioglie: sono le guarnizioni dei finestrini delle macchine che aspettano per ore al sole per via del traffico o della mancanza di alberi. A proposito di traffico, i tubi di scappamento delle vecchie e ammaccate Toyota Corolla contribuiscono non poco alla miscela di effluvi. E poi ci sono gli odori che si costruiscono nella testa: quello che viene dal camion di cocomeri passato all’incrocio o quello di sudore e gioventù nello scuolabus pieno di ragazzine bloccato davanti a me, con i finestrini chiusi nonostante il caldo, e che mi hanno fatto compagnia per buona parte della strada con smorfie e linguacce e risate attraverso il vetro. C’è l’odore dell’estate che finisce e dell’autunno che si insinua con quel retrogusto di umido nell’aria e la previsione del nero pungente del fumo delle stufe a segatura. E infine c’è l’odore del ritorno che, nonostante i dubbi e le esitazioni, ti accoglie come un abbraccio di benvenuto da parte di un vecchio amico.

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Resistere è esistere

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50 anni fa, La Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo vinceva il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia. In occasione dell’anniversario, il film è stato restaurato e CG Entertainment ha lanciato una campagna per pubblicare questa nuova edizione. In sostegno all’iniziativa, mi hanno chiesto di raccogliere dei pensieri in risposta a questa grande opera d’arte.
Il testo
è qui di seguito e questo è il link per sostenere la campagna.

Viviamo tempi cupi, in equilibrio precario fra la paura e l’assuefazione. La grande macchina dell’impero sbuffa in affanno, colpita al cuore da lupi solitari e terroristi organizzati. Il guado tra noi e loro si allarga, un guado definito da scorciatoie spesso solcate da conoscenze superficiali che sembrano convincenti perché elaborate nella lingua incontestabile del populismo rassicurante. Viviamo tempi cupi che sono alimentati da interminabili corsi e ricorsi di vichiana memoria: la storia non insegna, il genere umano non impara dagli errori del passato, la sete di vendetta sazia più del desiderio di trasformazione. La distopia del presente costruisce geografie frammentarie e isolazioniste, disegnate al negativo e fondate sulla divisione. In questo quadro sconfortante invece della possibilità d’incontro, l’unica cosa che sembra moltiplicarsi sono i dispositivi di separazione e i meccanismi di esclusione: muri di cemento, droni dai mille occhi, bobine di filo spinato.

Cinquantadue anni fa, Gillo Pontecorvo girava La Battaglia di Algeri, un film rivoluzionario senza tempo che – raccontando la storia della resistenza algerina e dei primi passi del movimento di liberazione nazionale che hanno condotto al drammatico, ma necessario processo di decolonizzazione – parla al presente con una contemporaneità stupefacente.

Cambiano i termini storici, ma la sostanza resta la stessa. Gli oppressori, i fascismi, i colonialismi passati e presenti reiterano triti argomenti per perpetuare la propria esistenza e asserire un’idea immutabile di passato che confermi la legittimità del proprio privilegio. Il paternalismo benevolente del potere, l’infantilizzazione dell’altro, la discriminazione sulla base del colore della pelle e della religione sopravvivono alla loro stessa stupidità.

In risposta ad uno status quo ingiusto e apparentemente immutabile, la resistenza – politica, civile, disobbediente, armata – continua a vivere rivendicando il diritto all’autodeterminazione, ad un accesso equo alle risorse, alla possibilità di essere gli autori della propria storia.

L’Algeria del 1957 è la Palestina dell’Intifada, è il Kashmir dell’estate di sangue del 2016, è la protesta degli Indiani d’America nella Riserva di Standing Rock.

Qualche tempo fa, in una conversazione i cui toni sono presto diventati animati, un amico mi ha invitato al realismo dicendo che di fronte alla violenza del potere è dovere dell’oppresso accettare la disparità delle forze ed accettare un compromesso. Mi ha detto che devo imparare a distinguere fra l’idealismo e la realpolitik: è tempo di crescere e guardare in faccia la realtà, visto che il sacrificio per la libertà non hai mai portato nessun frutto.

E’ vero, mai come oggi – in giorni di barconi alla deriva, campi profughi delimitati da reti elettrificate e diritto al movimento negato sulla base della religione – è tempo di crescere e guardare in faccia la realtà prendendo atto del fatto che siamo costantemente stimolati a scommettere sulla sopravvivenza e di dimenticarci della nostra esistenza.

Resistere è esistere – vivere a pieno in nome dell’equità e della libertà proponendo un modello diverso dall’oscurantismo che in nome di un dubbio beneficio immediato dissecca le radici dei diritti, del valore della diversità, della necessità di esprimere il proprio sé al di là di categorizzazioni e incasellamenti.

In La Battaglia di Algeri nel sesto giorno dello sciopero generale organizzato dal Fronte di Liberazione Nazionale, il gendarme francese al megafono sollecita la popolazione locale ricordando loro che è la Francia ad essere la loro patria ed è la Francia a sapere ciò che è meglio per il loro futuro e non i “terroristi” che cercano di manipolarli.

In un momento di grande poesia, il piccolo Omar, sgattaiolando tra il filo spinato, riesce a sottrarre il megafono ai Francesi e grida alla folla: “Fratelli algerini, fratelli, coraggio, resistete. Resistete. Non ascoltate quello che vi dicono. L’Algeria sarà libera.”

E’ con l’innocenza di questo bambino, un’innocenza che sopravvive nonostante la guerra, che dobbiamo guardare al futuro, alle potenzialità di un domani non omologato, tenendo stretto il diritto sacrosanto a esistere e resistere.