Domande importanti

kabul_tcm233-2366391

Un po’ di tempo fa, un’amica di mia mamma mi ha chiesto se una sua allieva potesse mandarmi delle domande sul lavoro che faccio per la sua ricerca per l’esame di terza media. Ho detto di si senza troppo pensare. Dopo qualche settimana mi sono arrivate le domande di Sara e mi sono resa conto che alle mie risposte era legata una grande responsabilità. Mi sono trovata davanti al compito difficile di bilanciare onestà e semplicità, tenendo a freno il cinismo e articolando delle risposte che valorizzassero il tono attento e sensibile delle domande di Sara. Da speranza sapere che nella confusione generale di questo tempo cieco, una ragazza di tredici anni abbia voglia di conoscere quel che succede in altri angoli del mondo. La nostra “intervista” è stata per me un’occasione importante di riflessione che mi fa piacere condividere.

Sara: Qual è la situazione attuale relativamente alla vita quotidiana dei civili?

Francesca: Nell’ultimo anno, in Afghanistan le cose sono molto peggiorate. Nonostante questa sia una guerra quasi dimenticata, il peso che il conflitto ha sui civili è enorme. L’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa specificamente dell’Afghanistan, l’UNAMA, ha pubblicato un nuovo rapporto la scorsa settimana in cui rivela che il 2016 è stato uno degli anni peggiori per i civili dall’inizio della guerra quindici anni fa. Per le continue violenze più di 650 mila persone solo lo scorso anno sono state costrette a lasciare le proprie case e spostarsi in città o villaggi vicini o in campi profughi per cercare un posto più sicuro dove vivere. Immagina, quindici città grandi come Avezzano costrette a spopolarsi: sono numeri enormi e difficili da immaginare.

Questo inverno, poi, le cose sono state particolarmente complicate perché c’è stata tanta neve e molte valanghe e alcune zone del paese sono quasi impossibili da raggiungere per via della guerra, rendendo la situazione dei civili – soprattutto dei più poveri – ancora più pesante.

Sara: Ci sono ancora attacchi terroristici? Come i civili possono difendersi?

Francesca: L’unico modo in cui ci si può difendere dalla guerra è continuare a vivere la propria vita e non farsi sopraffare dalla paura. Andare avanti e continuare a sperare in un domani migliore, non credo ci sia altra difesa possibile.

Sara: Riuscite a comunicare facilmente con le persone del posto, e a rilevare le loro difficoltà/esigenze?

Francesca: Io mi occupo di arte e produzione culturale. Il mio lavoro – a Kabul come in ogni altra parte del mondo – è, se la vogliamo dire così, dedicato alle esigenze della mente e dello spirito, più che a quelle del corpo. Ho dedicato gli scorsi cinque anni a questo tipo di “cura”. Sono anni in cui ho imparato molto e continuo ogni giorno ad imparare qualcosa di nuovo. La cosa importante per, usando le tue parole, comunicare e rilevare le esigenze delle persone è quella di essere disposti all’ascolto, di essere aperti a capire la realtà di un posto tanto diverso dal nostro senza la presunzione di arrivare in partenza già con tutte le risposte e le soluzioni a tutti i problemi. Un atteggiamento del genere penso che non porti da nessuna parte e non faccia bene né a noi né a chi ci sta intorno.

Sara: Sul territorio quante /quali associazioni/organizzazioni operano e per quali scopi?

Francesca: L’Afghanistan è pieno di organizzazioni locali e internazionali che si occupano delle cose più disparate, dall’educazione, alla difesa dell’ambiente, alla costruzione delle strade e alle vaccinazioni. Alcune organizzazioni fanno un gran buon lavoro, serio e importante; altre approfittano un po’ del bisogno e del fatto che la comunità internazionale continua a mandare tanti soldi nel paese. C’è un po’ di tutto. Se ti devo nominare un esempio di eccellenza, su tutti c’è la nostra emergency: costruiscono ospedali per le vittime di guerra, lavorano con coraggio, dedizione e umiltà; la loro è una storia da cui c’è davvero molto da imparare.

Sara: Qual è il livello di sicurezza di voi volontari?

Francesca: E’ importante chiarire che chi lavora in Afghanistan non è un volontario, ma un professionista pagato (a volte molto) per fare il proprio lavoro in un contesto difficile.

La sicurezza degli stranieri è una cosa complessa e costosissima fatta di macchine blindate, guardie e quelli che si chiamano protocolli di sicurezza ossia dei modi di comportamento da tenere in situazioni di rischio. Ci sono molte sfumature e questa è una domanda molto complicata che apre delle riflessioni molto complesse sul come ci si comporta e il perché di certe scelte.

Sara: Esiste secondo voi una possibilità di migliorare la situazione politica?

Francesca: La possibilità del miglioramento è una cosa di cui non si deve mai dubitare, altrimenti si rischia di perdere la speranza per il futuro. Capire quale sia il percorso necessario per il miglioramento, con i suoi tempi e modi, è la grande sfida e una responsabilità condivisa fra la società civile e il governo. Per chi sta lontano, credo che la cosa importante sia non dimenticare le guerre perché ad un certo punto non fanno più notizia.

Sara: Quali siti posso consultare per avere uno spaccato reale della situazione politica e sociale?

Francesca: Non conosco molte risorse utili in italiano. C’è il sito di emergency http://www.emergency.it/index.html; ci sono gli scritti di Giuliano Battiston che viaggia spesso in Afghanistan http://talibanistan.blogautore.espresso.repubblica.it/ e ci sono alcuni articoli interessanti su Q Code Magazine http://www.qcodemag.it/

Advertisement

Enciclopedia delle Donne

Tempo fa, Malavika Velayanikal ha scritto di me per l’Enciclopedia delle Donne. Molto è cambiato, il viaggio si è allungato, ma parte della storia resta.

Photo Credit: Selvaprakash L.

Photo Credit: Selvaprakash L.

Francesca Recchia ha attraversato mezzo mondo, spinta dalla passione per la conoscenza. Forzando sia letteralmente che figurativamente molti confini, i suoi vagabondaggi l’hanno portata in posti insoliti e spesso pericolosi.
Francesca ha sempre infranto convenzioni e stereotipi – come quando, da adolescente, è stata la prima rappresentante d’istituto di sinistra, interrompendo la lunga tradizione politica di destra del liceo di Avezzano, in centro Italia; oppure quando, molti anni più tardi, ha fatto conoscere agli studenti della University of Kurdistan Hawler, in nord Iraq, le potenzialità del pensiero critico e di forme alternative di dialogo. Lascia il suo paese d’origine subito dopo gli anni “molto” politici del liceo. Non è stata solo la scelta di laurearsi in Conservazione dei Beni Culturali a spingerla a Venezia, dalla parte opposta dell’Italia; trasferirsi a Venezia è stato perciò per lei un modo di ricominciare da zero: «dove nessuno mi conosceva e io potevo davvero capire chi fossi e che cosa volessi». Questa è per lei una costante: «Mi sento sempre un po’ fuori posto, cerco continuamente cose diverse e finisco sempre per essere un po’ più fuori posto, ma un po’ più contenta di prima».
In ambito accademico la sua irrequietezza ha acquisito nel tempo significati diversi: non è mai stata capace di dedicarsi ad una sola disciplina, di studiare con un solo professore o in una sola università – «intellettualmente non sono monogama», dice.
Nei primi anni di università hanno cominciato a prendere forma le sue convinzioni intellettuali: l’idea che la conoscenza non sia unidirezionale e che l’intelligenza sia un prodotto collettivo, ha giocato nel tempo un ruolo importante. Un’idea potente che, in realtà, non molti accademici condividono. Per la tesi di laurea (1999) ha mescolato arte e sociologia, scrivendo sull’arte contemporanea e i suoi devianti: l’esplorazione della linea sottile fra il genio e la follia non ha raccolto il consenso di tutti i professori. La sua relatrice, Giuliana Chiaretti, è stata la sola a sostenerla e ad incoraggiare il suo approccio interdisciplinare.
Il Master in Studi Visivi al Goldsmiths College di Londra le ha cambiato la vita grazie all’incontro con Sarat Maharaj, un professore sudafricano di origini indiane.
Qui, ancora una volta, ha rotto gli schemi organizzando un gruppo di discussione alternativo aperto a tutti, in cui artisti e critici potevano incontrarsi, cosa fino a quel momento piuttosto rara. Francesca, in questa fase del suo percorso intellettuale, ha cominciato a mettere in discussione le dinamiche di produzione della conoscenza ed è così che gli Studi Postcoloniali e Subalterni hanno colpito la sua attenzione.
Quando Londra sembrava praticamente perfetta per lei, ha deciso di spostarsi di nuovo: l’Italia era nel bel mezzo della “fuga dei cervelli” e tornare le è sembrato un dovere morale.
Con una borsa di studio consegue il dottorato di ricerca in Letterature, Culture e Storie dei Paesi Anglofoni presso l’Università L’Orientale di Napoli. Dopo le ondate di migrazioni successive alla seconda guerra mondiale, l’idea di Europa è cambiata e il “noi” e gli “altri” hanno preso all’interno dei suoi confini una nuova forma.
Francesca ha subito il fascino della trasformazione di questa idea di alterità e ha deciso di scriverne per la sua tesi, utilizzando la città di Londra come caso studio.
Infrangere i muri dell’arroganza intellettuale non rende la vita semplice a nessuno, e così è stato anche per lei. Con i suoi professori di Napoli ha sempre avuto difficoltà ma “fortunatamente” Sarat Maharaj è tornato nella sua vita, invitandola a lavorare per Documenta 11, la prestigiosa mostra che segna ogni cinque anni i paradigmi dell’arte contemporanea. Da lì ha cominciato a lavorare con multiplicity, un gruppo interdisciplinare di ricerca con cui ha condiviso, dice: «l’interesse per come cambiano le città e per il modo in cui le persone e i luoghi interagiscono». A Documenta, il gruppo di cui faceva parte aveva un mantra – Sbatti contro il muro e impara ad abbracciare il tuo destino – questo è stato da allora un motto che ha continuato ad accompagnarla visto che l’unico modo in cui riesce ad imparare è sempre per la strada più difficile. Ha viaggiato con diversi gruppi di ricercatori trovando opportunità per fare lezioni, studiare ed esplorare posti quali il Pakistan, la Palestina, il Kashmir, l’Oman, la Tunisia oltre a diversi paesi europei, sempre esercitando la sua non comune abilità di interpretare patterns insoliti, di unire punti di disegni invisibili.
«Mi ha insegnato l’umiltà intellettuale e la consapevolezza che la curiosità non ha mai fine!», dice di lei Sir Peter Hall, uno dei padri fondatori dell’urbanistica europea. Con lui Francesca ha completato il post-dottorato alla Bartlett School of Planning della University College of London.
Grazie alla collaborazione nel 2008 con TU Delft, in Olanda, con il gruppo Urban Body – che si interessa di sviluppo urbano mettendo al centro della prospettiva di ricerca il corpo umano – Francesca Recchia è arrivata a Bombay, in India, dopo analoghe esperienze a Pechino e Madrid.
«Credo che l’intelligenza e la conoscenza siano processi condivisi, le mie lezioni non sono quasi mai frontali, ma fondate sulla discussione».
Lezioni e conferenze nel tempo l’hanno portata a Venezia, Milano, Delft, in India, in Pakistan, in Palestina… Francesca ha sempre pensato all’insegnamento come ad un’attività politica – un’azione politica intesa nel senso della possibilità di produrre cambiamento anche se fino a quel momento la sua esperienza sembrava mettere in discussione le sue idee: «Ero a disagio, mi sembrava di essere pagata per prestare un servizio.» Per lei, insegnare l’importanza del pensiero critico, del dialogo, della discussione, dell’apprendimento democratico è sempre stato tanto rilevante quanto trasmettere i contenuti.
Il Kurdistan iracheno è in una fase di transizione verso la democrazia e la missione della University of Kurdistan Hawler è quella di combinare tradizioni locali e pensiero contemporaneo: cercavano un docente di sociologia urbana e a Francesca Recchia questa è sembrata una occasione perfetta: l’esperienza di quei due anni sta diventando un libro che testimonia la ricchezza di quell’incontro.
Francesca è tornata in India a luglio del 2010 dove ha lavorato per un periodo alla trasformazione radicale di un villaggio rurale prima di rimettersi di nuovo in viaggio. Il mondo è lì che chiama e lei è sempre pronta a rispondere.